lunedì 13 maggio 2013

Scheggia

Ho rivisto ciò che ero, per un attimo. Abbastanza per imprimere non solo quell'immagine, ma anche tutto ciò che la contornava - emozioni, spirito, pensieri, carattere, nella mia testa e dentro di me.
Ho provato tantissima nostalgia. Mi sono sentito come in colpa.
Mi ero dimenticato, senza rendermene conto. 
Mi sono ritrovato, e lo stupore di rivedermi ancora lì dov'ero, com'ero, mi ha praticamente sovrastato, come un'onda oceanica multicolore, schiumata, fragorosa, viva. Ecco, ho riprovato la vita, e in un secondo più di dieci anni mi sono passati davanti veloci come schegge di luce: manoscritti in bella copia quasi come fosse stampa, quaderni stracolmi di note, fogli volanti vissuti, turbamenti, passioni, abissi sondati impavidamente.
Ho visto tutto ciò ed anche ben di più, e mi sono sentito mutilato, ammutolito, paralizzato.
Poi ho mosso le dita, gli occhi, e ho iniziato a piangere. E' come se avessi riaperto un piccolissimo uscio del quale non trovavo più la chiave. Ho riaperto un chackra, un canale non tanto di espressione, quanto di consapevolezza di vivere, di desiderare, di bisognare.
Ho sentito il mio sangue molto caldo, il mio cuore accendersi, il mio corpo emanare calore e muoversi armoniosamente.
Ho visto quanto ho dato, e quanto il mio riserbo e la mia riverenza non mi hanno mai portato a chiedere. Ho visto quel che sono (stato), e se allora me ne vergognavo tanto, e se il tempo progressivamente mi aveva imprigionato, trasfigurato... ora le bende si erano sciolte, e potevo riguardarmi davvero nello specchio. 
La meraviglia di quei giorni che sono e sembrano tanto lontani, e di quel qualcuno che spero di poter ancora essere.
Credevo di essermi costruito un'anima nuova, e invece, per il fatto che costa caro portarla, l'avevo soltanto negata.
Ho provato tantissima nostalgia, tanto da essere insopportabile. Allora ho iniziato a muovere dei passi, per tornare verso quel che ero, abbracciarlo, chiedergli perdono e rimetterlo al posto che è sempre stato suo.


A.

martedì 7 maggio 2013

La Sfera di Acqua e di Neve

Spesso le parole sono fionde che lanciano la pietra dei ragionamenti in direzioni inaspettate. Ci si ritrova catapultati in sperdutezze selvagge senza alcuna risorsa né orientamento e, se si trova il coraggio per cominciare a muoversi, si va per tentativi. Ogni scricchiolio inquieta ed ogni rumore vicino o distante ruba la nostra attenzione e dedizione alla riflessione su cosa e come ci stiamo muovendo. Mai camminare ci è parsa un'azione così nuova, così difficile. Anche se fra le fronde qualche raggio di sole buca e ci raggiunge, non ci dà fiducia: lo sappiamo distante; e, anche se possiamo riconoscere più o meno che posizione ha il sole, ciò non c'è d'aiuto: perché quel che cerchiamo non è l'ora del giorno, né quanto manca prima che scenda la notte ed una falce di luna venga a ferirla con una malizia tale da non farla nemmeno sanguinare. 
Noi vogliamo sapere dove siamo, e quanto siamo finiti lontani da dove eravamo prima. Per certi versi, ricorda il viaggio che conducono (o, almeno, così spesso viene detto) le persone per uscire dal coma: è come un destino tracciato, una serie di strade, immagini, bivi, incroci, silenzi e rumori che si devono incontrare perché si compia l'intera formula dell'incantesimo che è necessario per riaprire gli occhi e tornare alla vita di sempre.
Questo, almeno, fino alla successiva distrazione: qualcuno che ha bisogno di noi, un'urgenza o un impegno preso che ci tiene con un piede incollato a terra... Ecco che solleviamo gli occhi, incerti, quasi storditi, e l'unica cosa che possiamo fare è posare questo viaggio sulla mensola, come una di quelle sfere di vetro piene di acqua e "neve", rimandando l'avventura in quel piccolo paesaggio ad un momento di cui, guarda caso, ancora non sappiamo se, come e quando arriverà.



A.

giovedì 2 maggio 2013

Alla Ricerca del Tempo Perduto

Fa uno strano effetto constatare di ricordare assai vividamente momenti della propria infanzia - o della prima giovinezza - i quali, differentemente, sembrano essersene andati via dai ricordi delle persone più care. Quelle persone che erano già adulte nel periodo in cui tu eri un bambino o un ragazzino in pubertà, e pertanto, tendenzialmente, forse più portati ad imprimere nella loro memoria quegli attimi, quei periodi.
L'altro giorno, parlando con mio padre, ho capito che lui non ricorda più né quando né come, o dove, o perché io iniziai il corso introduttivo di pianoforte in prima media. Sorpreso ed incredulo, mi sono ritirato in un mio adombrato angolo di domande. Diamine, eppure fu lui a pagarmelo, ad iscrivermi, a portarmi a lezione in quei pomeriggi a scuola. Ci fu anche il saggio finale, nell'Aula Magna dell'istituto che, qualche anno dopo, sarebbe diventata la mia scuola superiore. Ma più ho tentato di risvegliare la sua memoria, più cresceva la mia consapevolezza del suo non ricordare nulla.
Non ricordava neppure dei 4 anni di totale autodidattica che, in seguito, feci, per l'opposizione sua e di mia madre a farmi proseguire. Ed io, invece, tuttora ricordo (e quasi rivivo) intensamente la bramosia, la mia già germogliata convinzione nel destinare la mia vita alla musica: la delusione per la negazione di un proseguimento. Ho capito che, a suo tempo, differente com'ero di carattere rispetto a qualche anno dopo (nonché ad ora), non passò il messaggio: la mia frustrazione. Forse non fui in grado di renderla chiara, di disegnarmela in modo evidente sul volto. Forse non ne parlai sufficientemente tanto, o con la dovuta convinzione. Forse non era una ribellione abbastanza forte.
Lui nemmeno ricordava di avermi negato per anni ciò che più desideravo, mentre io di quella negazione porto ancora intimamente non un risentimento (ci mancherebbe), ma sicuramente un segno, una traccia invisibile ma fortemente percepibile.
Com'è facile arrecare danno a qualcuno senza accorgercene. Com'è facile dimenticarcene.
Stimiamo il valore delle cose secondo i notri canoni, anche quando non ci riguardano. E ciò è un errore. Presumiamo di riassumere il peso di una delusione, di una mancanza, di una dimenticanza attraverso la nostra sensazione del peso, e così facendo non consideriamo che tale peso non grava affatto su di noi, ma anzi, lo stiamo per "scaricare" sulle spalle di qualcun altro.
E noi, noi che quel peso lo riceviamo, quel sacco di farina o di cemento, quella mole di responsabilità non nostre... siamo forse così attoniti e scombussolati che non riusciamo a esporre il nostro pensiero, ad interpretare adeguatamente la nostra delusione, a cercare di indurre un'inversione di rotta.
Spesso penso a quanto tempo ho perso... e mi rendo conto che molto di esso è andato perdendosi a causa delle scelte di qualcun altro che, forse, non ha preso in considerazione la mia voce, che non ha notato i miei occhi bassi, il mio silenzio, le mie mani incrociate o i miei sospiri desolati. E in tutto ciò, mi sono spesso chiesto se ho diritto di provare del risentimento, della rabbia, del rigetto o che altro sia. Non ho mai azzardato l'ipotesi di un errore volontario, di una negazione di diritto fatta per pura fine a se stessa. So solo che le motivazioni che accompagnavano quel "no" erano deboli, banali, o peggio assenti.
Spesso penso a quanto tempo ho perso, e a quante volte, forse, avrei dovuto rivendicarlo o farlo notare, anche perché assieme a quel tempo ho perso anche, un granello alla volta, buona parte di serenità e di entusiasmo. Di naturalezza.
Ho perso il tempo che non riavrò mai, e che resterà in quel luogo stagnante dove stanno le cose inutilizzate o non sfruttate, puramente lasciare passare (o passire). L'ho perso per volontà delle persone più care. E loro non solo non se ne curano, ma lo hanno pure scordato.
E' proprio vero che le cose perse sono quelle di cui si può sentire di più la carenza. E ciononostante, anche se provassi avversione, ira, rancore o altro, non me ne tornerebbe un solo minuto, un solo secondo.


A.