giovedì 28 dicembre 2017

Quando il letto sfatto diventa quasi una "battaglia politica"

[Questa volta non scriverò un articolo di musica, non pubblicherò foto o recensioni di un concerto. Ho viglia di scrivere di qualcosa di molto meno importante ed "elevato", ma che ho notato crescere, se non di importanza, quanto meno di volte in cui l'argomento si propone, tanto che mi sono ritrovato a rifletterci su. Ovviamente, con una vena ironica di fondo. Ecco il panegirico che ne è uscito:]

Rifare il letto, o meglio dover rifare il letto, è qualcosa che mi ha sempre reso insofferente. Vengo da una famiglia in cui certe mansioni di casa sono viste quasi come imperative, irrinunciabili al limite del venire prima delle persone stesse, ed una di queste è proprio il fatto che il letto sembri debba risultare rifatto al massimo per l'ora di pranzo. Dopo, sarebbe come un sacrilegio, un'offesa, una cosa quasi indegna. Ho visto mio padre non avere requia senza aver prima terminato ogni cosa che debba essere fatta prima. Addirittura, li ho visti dormire male, agitarsi, vivere male una giornata. Ma si può?!
Che sia per il fatto che di mio sono -molto!- difficile a farmi comandare, che sia perché odio -peggio!- essere interrotto mentre sto facendo qualcosa che mi prende parecchio (suonare/studiare, scrivere o ascoltare musica, leggere, meditare; ma a volte anche assai meno importanti, come quelle rare, rarissime volte in cui accendo la tv o mi siedo sul divano -entrambi oggetti completamente monopolizzati dai miei genitori), o per qualunque altro motivo, ma non riesco ad essere d'accordo. Visceralmente, dico, mi viene da oppormi: sbuffo, alzo gli occhi al cielo, insomma faccio un po' di teatro, involontariamente. Dentro di me, la figura di un patetico attore da palcoscenico in una scena di disperazione e pianto, o peggio un operista in un'aria di follia.
Trovo inutile, se la guardo un po' da lontano, la mansione del rifare il letto. Ogni santo giorno. Quando, poi, dodici-quattordici ore dopo lo si disfa nuovamente, per dormirci. E anche un po' stupido. Mi sta benissimo aprire la finestra e cambiare aria, ci mancherebbe (un quarto d'ora, non due ore come fa mio padre, che in pieno inverno quando poi torni in camera è già buono se non ti prendi un accidente o una dissenteria fulminante!), ma perché essere condizionati in quel modo, o sentirsi in dovere di rifarlo per forza, tanto che se si esce per delle commissioni senza averlo fatto si resti inverso? Cioè...?!
A volte mi sorprende l'essere così lontano e diverso dalle idee della mia famiglia. Mi sento un figlio adottato, o allevato da qualcun altro. Boh?! So che sto scrivendo di un argomento abbastanza superficiale o comunque non importante, ma il numero di volte in cui in questa casa si presenta la polemica a riguardo mi lascia basito, e anche velatamente divertito (nonché un po' stressato, ma vabbé...). Penso alla reazione smodata di mio padre, quando mi capita di sedermi sul letto rifatto per legarmi le scarpe o cambiarmi i vestiti: l'equivalente della distruzione di una parete della casa. Così, dopo lo sbotto, vado oltre e rifletto... Il fatto è che trovo la camera da letto il luogo in cui una persona possa e abbia bisogno di sentirsi a più agio possibile, e nel quale non debba fare attenzione a tutto ciò che tocca, ciò che sposta o lascia in giro. Un angolo nel quale può lasciarsi andare e stare in tranquillità, non dove cercare di coesistere a un asettico ordine forzato.
Ecco perché, qualora riuscissi nel prossimo futuro a creare una mia casa, un mio luogo dove stare, la camera da letto sarà sacra. Ma non per l'ordine. Non per il letto sempre rifatto. Voglio un letto a due piazze dove non preoccuparmi di quanto mi muovo nel sonno, e che posso lasciare sfatto per dare energie ed attenzione a qualcosa a mio avviso più importante, più utile o coinvolgente. Non è una questione di igiene o di pulizia, ci mancherebbe, è più un voler eliminare faccende inutili che hanno assunto per consuetudine il carattere dell'obbligo.

C'è sempre tempo per dedicarsi a questioni veramente inutili. Il letto, per me, è una di queste. Al contrario, ce n'è sempre meno per le cose importanti, per le quali esso sembra correre al doppio della velocità, prendendoci quasi gusto. Ho già perso -non proprio per mia scelta, anzi- tanto tempo quando ero più giovane, sottostando sempre a certe imposizioni. Vorrei poter vivere a modo mio, anche sbagliando, anche scordandomi di qualcosa e rimettendoci se serve; ma con le mie priorità, le mie cose importanti, le mie scelte e i miei valori. Sicuramente terrei il letto sfatto quasi perennemente, specialmente qualora invitassi i miei genitori a vedere il mio appartamento!

A presto,
Andrew

lunedì 25 dicembre 2017

Auguri

Un caloroso augurio di serenità, calore e luce per questo giorno di Natale!


A presto!
Andrew

lunedì 18 dicembre 2017

Articolo di "Zona News" sul concerto finale della masterclass con Irene Veneziano

Ringraziando la Sig.ra Carla Pastormerlo, direttrice dell'Accademia Marziali di Seveso, per la condivisione, pubblico la fotografia di un articolo edito da "Zona News", riguardo al concerto conclusivo della masterclass con Irene Veneziano, lo scorso 10 Dicembre: 


A presto!
Andrew

mercoledì 13 dicembre 2017

Sulla masterclass con Irene Veneziano (12 Novembre-10 Dicembre 2017)

Come avevo accennato nel breve articolo sul concerto di chiusura, ho partecipato -dopo qualche anno che, ahimé, non lo facevo più- ad una breve masterclass di pianoforte della cara amica e collega Irene Veneziano, ottima pianista che ho visto emergere sempre più dai tempi della Chopin Competition del 2010. 

[La nostra conoscenza è stata abbastanza casuale, dopo un suo concerto verso la fine dello stesso anno, a Monza, nel quale, insieme ad un altro bravo pianista, Ivan Donchev, eseguiva i due Concerti per pianoforte ed orchestra dello stesso Chopin nelle versioni con orchestra d'archi. Lì non ebbi occasione di parlarci, ero in treno e troppa era la gente presente per poter riuscire a raggiungerla e salutarla. Dovetti aspettare qualche settimana, a Morbegno, nel festival dell'amico Michele Montemurro, ed è stato da subito un incontro pieno di allegria.
L'anno successivo partecipai ad una sua masterclass (anche questa scoperta casualmente su Facebook) a Cutigliano, nelle colline pistoiesi; quindi, dal 2012 al 2014, alle sue master a Santa Margherita Ligure. In tutte queste esperienze ho avuto modo di comprendere tante cose su come studiare, questioni posturali, di utilizzo degli arti e del peso, e soprattutto del "gesto", come qualcosa di finalizzato al suono e tramite esecutivo di aspetti non solo tecnici ma anche musicali.]

Tornando a monte, domenica scorsa, 10 dicembre, ha avuto luogo il concerto finale, dopo le ultime lezioni, nel quale, come già anticipato, ho eseguito la Sonata in Si minore Hob.XVI: 32, di Haydn. Nonostante la neve, c'era un buon numero di persone ad ascoltare. 
L'ambiente è molto carino: l'Accademia Marziali di Seveso ha un buon pianoforte lì. Il clima era piuttosto disteso e sereno, coeso. L'atmosfera piacevole ed Irene stesso, nel ruolo di "annunciatrice-presentatrice" è stata molto simpatica, professionale, togliendo dall'occasione una possibile aria troppo seriosa senza che essa apparisse banalizzata. 

E' stato emozionante per me, anche perché non eseguivo nulla in pubblico da Luglio (e, soprattutto, non eseguivo brani a memoria preparati in così poco tempo!). Ho una volta di più compreso quanto sia utile ed importante per noi musicisti esibirci spesso in pubblico, non solo come sfoggio di bravure, ma come occasione formativa su vari aspetti, che vanno dalla mera gestione dell'emotività al confronto delle proprie peculiarità, alla condivisione del proprio lavoro e anche come coronamento di una fase di studio, intensa o meno che essa sia.

Prima di lasciare qualche fotografia vorrei ringraziare Irene per la sua professionalità, amicizia e simpatia. Per la sua serenità e il suo non farti mai sentire "meno". Gli altri corsisti che, nonostante ci sia visti soltanto di sfroso e in due soli giorni, c'è stato un bel clima di simpatia senza vene competitive.
Inoltre, ringrazio sentitamente l'Accademia Marziali di Seveso, ottimo ambiente ben organizzato: in particolare, la Sig.ra Carla Pastormerlo, organizzatrice di tutto l'aspetto "tecnico" (orari di lezioni, raccolta iscrizioni, pagamenti, risposta a richieste di vario genere sempre con estrema cortesia), e Lisa Vergani, pianista e docente di pianoforte sempre presente, simpatica e disponibile, con ben 4 allievi presenti. E' stato un piacere conoscervi. E speriamo di avere future altre occasioni di organizzazione e collaborazione!

Ecco gli scatti che ho ricevuto da amici e dalla stessa Accademia:









A presto, spero!
Andrew

sabato 9 dicembre 2017

Concerto del duo Gross-Falloni (Sabato 2 Dicembre 2017)

Con un certo ritardo (una settimana esatta) ho il tempo di scrivere di un bel concerto ascoltato presso la Fondazione Borsieri di Lecco sabato pomeriggio scorso, esattamente prima di quello di Villa Carcano in serata. 
L'organico era il duo violoncello e pianoforte, nelle mani degli interpreti Katharina Gross e Matteo Falloni, con un programma veramente interessante e, a mio personale avviso, molto ben strutturato. La prima si è rivelata una sensibile e fine interprete, anche molto "coraggiosa" nel ricercare sonorità ed effetti al limite delle possibilità del suo strumento -che ho veramente gradito molto; il secondo, un buon pianista e interessante compositore: il programma, infatti, prevedeva anche un suo brano, molto ben scritto tanto quanto adatto a fare parte del programma proposto.

In riferimento, appunto, alla scaletta di brani, essa appare come una scelta fine ed interessante di composizioni intrise di colore ed ispirazione popolari di autori di varie zone dell'Europa (ma non solo): stupenda, e meravigliosamente eseguita, apre il concerto la Suite Populaire Espagnole di De Falla, con i suoi umori contrastanti, le sue atmosfere patetiche e sensuali, focose e delicate, la sua ritmica conturbante, così profondamente adesa alla Spagna; quindi Pohàdka di Janàcek, sorta di sonata-racconto, anch'essa intimamente coesa con la terra originaria del compositore, che non manca di permeare con il suo marchio artistico la scrittura dai ritmi inquieti -anch'essi vagamente danzanti, come il precedente autore iberico- e le armonie ricche di chiariscuri, i dialoghi strumentali che richiamano alla mia mente e al mio cuore il suo Kreutzer Sonate Quartet (che letteralmente amo!); subito dopo, le arcinote Danze Rumene del grande Bartòk, che non meritano parole aggiunte se non per le belle esecuzioni del duo, abbastanza fuori dal ordinario -o, almeno, da quel ordinario che io conosco- ma poetiche, grintose ed interessanti; un Intermezzo di Grieg, pezzo a me sconosciuto fino ad allora e per certi versi affine ai suoi Lyric Pieces, spezza l'ardore generale per ripiegare verso un universo più profondamente introspettivo e meditativo. 

L'ultima parte del concerto sembra dedicarsi all'afrore del tango argentino: dal già citato pezzo scritto dallo stesso Falloni, Vals argentino -che, per quanto differente a livello ritmico dal tango, ad esso si avvicina per il clima melanconico e struggente misto a "risvegli" più sanguigni- al famoso Le grand Tango di Piazzolla, brano stupendo e strumentalmente assai fine e particolare, inequivocabilmente argentino nelle sonorità, nei pigli appassionati e abbandonati.

Il fatto di avere l'automobile piazzata in un parcheggio disponibile per un'ora al massimo (ma avevo già sforato di dieci minuti buoni!) mi ha impedito di restare ad ascoltare il bis di questo duo così ben amalgamato, che ha davvero soddisfatto il mio bisogno di ascoltare buona e non blasonata musica.

Ho avuto, però, occasione di scattare qualche fotografia, che come sempre metto qui a testimonianza.
Con un senso di gratitudine per il duo, rimando a prossimi futuri post.





A presto,
Andrew

martedì 5 dicembre 2017

Concerto del "Sinergia Duo" (2 Dicembre 2017)

Sabato scorso sono tornato in un luogo a me caro, e molto caro alla mia adolescenza di studente di pianoforte: la Villa E. Carcano di Mandello del Lario. A suo tempo -una quindicina di anni fa, ormai- ogni anno venivano proposte stagioni di concerti, dedicate a tematiche o autori differenti, e adottando soluzioni diverse: solisti, duo pianistico, ensemble cameristici eccetera. Era da allora che non ci mettevo più piede, tempi in cui la direzione dell'ambito concertistico aveva nomi di spicco quali Eli Perrotta e Chiaralberta Pastorelli. Tempi in cui ho visto passarci pianisti solisti che, oggi, sono divenuti ottimi concertisti o docenti di fama anche all'estero: penso a Roberto Plano, Alessandro Cervino, Barbara TolomelliAlessandro Commellato, Michele Montemurro e molti altri.
Ci andavo con il mio, all'epoca, insegnante di pianoforte, Michele Santomassimo, dopo aver fatto lezione, o con mio padre ed il mio migliore amico. La Villa, dai tratti art nouveau, mi affascinava, mi riportava indietro ad un periodo storico a me caro, al quale mi sentivo inspiegabilmente legato; esaltava il mio temperamento un po' "sturmisch", la mia vena romantica, i miei sogni che un giorno anch'io avrei potuto presenziare su quel palco, e su molti altri. Ad oggi ancora non ce l'ho fatta, chissà il futuro cosa riserverà...

Tornando a monte, sabato era previsto un concerto per violino e pianoforte, tenuto rispettivamente dal Sinergia Duo, che a dire il vero non conoscevo, composto dalla violinista Katerina Poteraieva e la pianista Anna Avzan. Il programma prevedeva due sonate, l'Op.8 di Grieg, in Fa maggiore, e l'Op.137 di Schubert, in La minore; e l'esecuzione di una trascrizione dello Schiaccianoci del caro Cajkovskij.
Purtroppo, per un errore di memoria, sono giunto in ritardo al concerto: alle 21 al posto delle 20.30, ed erano già giunte al secondo movimento della Sonata di Grieg. Sin da subito ho potuto notare la pienezza di suono della violinista, e la bellezza del suono pianistico, anche nei passaggi più azzardati o complessi. Ho gradito le polifonie curate, i fraseggi e gli equilibri sonori, soprattutto in Grieg, il cui Allegro molto vivace finale mi ha lasciato veramente soddisfatto.
Lo Schiaccianoci si è rivelato meno ricercato, più semplice e diretto, senza fronzoli. La parte che ho maggiormente gradito è stata l'Ouverture in miniatura; ma anche la Trepak e la Danza Araba le ho trovate ben eseguite.

Peccato non essere giunto in tempo! Ma quel che ho udito è stato sufficiente per comprendere la buona preparazione di entrambe le musiciste e la loro intesa musicale.
Sperando vivamente in prossime occasioni (nonché in un ritorno al passato, con vere e proprie stagioni: questo luogo così incantevole merita di essere più valorizzato!), lascio un paio di fotografie scattate.



Sperando a presto,
Andrew

Su "Peter Camenzind" (Hermann Hesse)

Fra i libri che acciuffai al mercatino di Imbersago lo scorso Ottobre, c'era Peter Camenzind, di Hermann Hesse. Ammetto che, fino a quel giorno, non sapevo nemmeno che questo romanzo esistesse; e ammetto anche di averlo acquistato perché si trovava fra le offerte a 1/2 euro, e di essere rimasto più attratto dalla breve trama sul retro e dalla copertina che da altro. Infatti, una volta portato a casa, l'ho lasciato a sonnecchiare un po' -feci in tempo a concludere le Confessioni di un oppiomane di De Quincey, iniziare La Metamorfosi di Kafka e Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij, i quali tuttora sono lì mezzi addormentati sul comodino- prima di cominciare, con poca convinzione la lettura.

Come mi sbagliavo! Sin dalle prime venti pagine, i tratti burberi e scontrosi, ma pieni di sensibilità e dolcezza, di questo ragazzo montano mi hanno rapito. Sembrava quasi di poterlo vedere, come se fosse vicino o aleggiasse intorno. Sono rimasto coinvolto nei suoi tormenti di adolescente con una certa vaga melanconia, o forse empatia; ho partecipato, inoltre, alle sue avventure: spesso mi veniva addirittura da incitarlo o consigliarlo... insomma, mi sono lasciato prendere piacevolmente da questo breve romanzo (tant'è che l'ho finito in tre settimane scarse, leggendolo prima di dormire) così fresco, scorrevole e mai pedante. A tratti mi sono ritrovato simile in sue esperienze, oppure ad aver vissuto esattamente come Peter talune circostanze, oppure ancora a rivedere alcune mie avventure o momenti passati con gli spunti che traevo dai suoi frequenti colloqui con se stesso.
Ho amato, e letto più volte la poetica di Hermann Hesse. Pur non conoscendo affatto il tedesco, nelle traduzioni trovavo metafore, similitudini, visioni di grande effetto. Trasudava passionalità, fervore, desiderio. Meno sfrenato di De Quincey, meno misurato di Mann, meno "flautato e pastello" di Proust, eppure tanto vissuto, e tanto capace di trasferire nel lettore i tumulti, le sensazioni, a tratti le ipnosi.

Non voglio stilare una pseudo-recensione del libro, quanto, piuttosto, lasciare qualche spizzico e boccone sui momenti più belli dello stesso. 
Prima fra tutti, la descrizione dell'immagine del padre, uomo beone e violento, praticamente anaffettivo verso il figlio: lo stesso Peter non si risparmia quando ammettere di aver preso parecchie botte durante la giovinezza, ma non ne ha mai capito né saputo le ragioni. Quindi la figura della madre, donna apparentemente fredda e molto "pragmatica", e la precoce perdita della stessa, vissuta dal protagonista senza previsioni né vere disperazioni (forse, però, con un ingoio enorme, e un amaro di disarmo ed impotenza) una mattina, mentre il padre era nello stesso letto, al fianco di lei, addormentato, senza accorgersi dell'agonia della consorte. Le parole con cui Hesse descrive l'agonia sobria ma evidente della madre, e il progressivo abbandono della vita sono molto toccanti. 
Subito dopo, la figura dell'amico Richard: momento alto del romanzo, in cui si incontrano gli ambienti "alti e bassi": la mansarda polverosa ed essenziale di Peter e l'appartamento meraviglioso dell'amico pianista; il carattere grezzo, cupo, un po' misantropo ma poetico dell'uno e la giocosa innocenza e la farfalloneria dell'altro, che non manca di stimolarlo e di invaderlo dolcemente nella sua insita ritrosia; il viaggio insieme in Italia, prima della loro separazione, a conclusione degli anni di studi -sempre costellati dalla fame di lettura e dal lavoro di recensore e articolista per qualche giornale locale- ed il passaggio nelle zone Umbre.

Gli amori, non da meno, costituiscono un capitolo importante. Richard stesso (e non solo) sembra essere parte di essi, pur non essendoci mai un'effettiva relazione amorosa, quanto semmai un'amicizia profonda, intima e calorosa. 
Le donne amate da Peter Camenzind, senza mai avere da esse corresponsione, sono tre: una ragazza, di nome Rose, amore giovanile vissuto segretamente dal protagonista ancora fra le pareti delle sue vallate natie; una pittrice, Erminia, la quale gli confesserà di essere innamorata di un uomo che non la considera proprio in un incontro romantico, sul lago, nel quale egli si era convinto a dichiararle il suo amore; l'ultima, Elisabeth, una bella donna di rango medio-alto, frequentatrice di salotti letterari ed artistici, con la quale avrà una breve relazione, interrotta da lui prima che questa prenda una piega troppo seria ed "impegnata": infatti Elisabeth, successivamente, sceglierà di sposarsi con un altro uomo, e Peter le resterà sempre fedele amico, pur nutrendo ancora un forte innamoramento.
Infine, la figura di Boppi, che diviene centrale, ed ultima, profonda tematica del romanzo, prima della conclusione. Uomo storpio dalla nascita, fratello della moglie di un falegname col quale Peter stringe un'ottima amicizia, inizialmente suscita agli occhi di quest'ultimo una sorta di impressione, per poi trasformarsi in un rapporto tanto fraterno da ricordare quella con Richard, ma vissuto in età adulta. Tanto che Peter deciderà, di fronte alle ire e ai fastidi dell'amico falegname che non vuole mantenere Boppi in casa, di assumere le cure e la responsabilità di quest'ultimo, portandolo a vivere con sé e restandogli a fianco fino agli ultimi attimi di vita.

Insomma, guardando il libro da una certa "distanza", la figura di Peter (traslazione dello stesso Hesse) sembra essere quella di un'anima costretta, per una sorta di destino, ad assistere al contatto con l'amore degli altri quanto con la perdita di essi o dello stesso amore. Ciclicamente, egli si trova in alto alle onde, sereno e spensierato, appassionato e poeta senza reale contatto con il terreno, e subito dopo piombato nel più profondo crepaccio dell'anima, tortuoso, sanguinante e dolente. Le donne amate, Richard, la madre, Boppi sono persone cardine, che riportano il protagonista alla "vecchia crepa" del bisogno di essere amato (visto che, dato il distacco insito nel carattere materno, e la violenza inspiegabile di quello paterno, egli non conosce bene la sensazione di essere amato) e delle cose semplici ma fondamentali della vita. L'amore altrui ferma -o quanto meno "rilassa"- la sua sete di conoscenza, di andare sempre a fondo e di conoscere il mondo, di percorrere a piedi infinite distanze e di sciogliere l'anima nell'ebbrezza data dal vino, abitudine che Peter eredita dritta dritta dal padre. 
E tutto ciò attira il lettore, lo inchioda alle pagine, creando empatia verso il protagonista, rievocando giovinezze, adolescenze, fulgori e pathos, amori non corrisposti... esperienze nelle quali, forse, a ben guardare, possiamo somigliarci proprio in quanto umani.

La conclusione è una sorta di ritorno all'ovile, dopo aver sondato terre altre, aver incontrato genti diverse, lasciato stancare l'anima su strade infinite e multiformi. L'occhio di un ragazzino cresciuto e fattosi uomo, con un mutato senso dell'amore e della vita stessa, nonché un nuovo sguardo sulle proprie origini, che, però, lascia così, un po' incompleti: come se questa sorta di diario di vita di Peter Camenzind non trovi ancora pace né fine, come se il suo poema tanto progettato ma mai scritto lo si aspettasse ancora; poiché alcune aspirazioni e sogni non hanno ancora trovato realtà o fine, e restituiscono l'idea di un proseguimento non scritto, del quale siamo tuttora in attesa.

Andrew

sabato 2 dicembre 2017

Concerto finale della masterclass pianistica con Irene Veneziano

Il prossimo 10 Dicembre 2017, domenica per l'esattezza, presso l'Accademia Marziali di Seveso ci sarà il concerto conclusivo della masterclass di pianoforte di due giorni tenuta da Irene Veneziano il 12 Novembre scorso e, appunto, il 10 Dicembre.

Erano anni che non partecipavo a una sua masterclass, dai tempi di quelle estive di Santa Margherita Ligure, ed è stato emozionante e divertente -oltre che ovviamente interessante ed utile- rivedersi dopo qualche anno. Mi attende ancora la seconda lezione, ma volevo condividere con voi questo manifesto riguardante il concerto finale, nel quale io suonerò la Sonata Hob.XVI: 32 in Si minore, di Franz Joseph Haydn (volevo suonare la Ballata Op.38 di Chopin, ma non ho avuto ahimé sufficiente tempo per prepararla come avrei voluto -la Sonata di Haydn, peraltro, l'ho costruita in tre settimane, perciò sarà anche quello un bel esperimento pubblico!):


Vi aspetto!
Andrew

giovedì 30 novembre 2017

"Sulle condizioni della poesia, oggi"

Dopo la ri-edizione di "Mùrmure" su ilmiolibro.it, ho deciso di partecipare agli articoli che, su tale sito, possono essere redatti e pubblicati al fine di creare confronto e avvicinamento fra gli autori. Uno degli argomenti proposti riguardava i motivi per i quali la poesia oggi abbia così poca attenzione del pubblico e così poca risonanza fra i lettori e le proposte editoriali. Ho deciso di scrivere una mia idea -un po' astrusamente, ma del resto era passata l'una di notte da un bel po', non riuscivo a dormire, e quindi non ero proprio bello pimpante- e le mie impressioni, così, un po' "a caldo", che condivido anche QUI, affinché possa essere visibile anche fuori dal sito stesso. 

Qualora vi andasse di dirmi la vostra, o di segnalarmi la vostra presenza sul sito o altro, scrivetemi qui come commento, o in privato. Sarà bello incontrare altre persone interessate!

A presto!
Andrew

sabato 18 novembre 2017

Su "La leggenda del santo bevitore" (Joseph Roth)

E' passato poco più di un mese da quando ho fatto incetta di libri di seconda mano (ma anche terza-quarta mi sa...) al mercatino dell'usato di Imbersago -luogo che io letteralmente amo!- e una ventina di tarde sere da quando ho scelto di leggere La leggenda del santo bevitore di Roth. Perché questo piccolo libricino si lascia leggere in pochissimo tempo, forse anche meno di un'ora, ma non manca di trasmettere contrastanti sensazioni.
Ammetto di essere stato attratto dall'edizione, la Piccola Biblioteca Adelphi, che mi ha sempre affascinato già al tatto, per le sue copertine di ruvido cartoncino bristol di tutti i colori, così semplici eppure così azzeccate. Non conoscevo quest'opera di Roth -e forse, ora che ci penso, nemmeno Roth- ma qualcosa del titolo e del breve essai sul retro deve avermi catturato e indotto ad aggiungerlo agli altri.

La narrazione di Roth è schietta, senza fronzoli o ricercatezza. Sembra quasi voler sbrigare il racconto nel minor tempo possibile, dando solo un tratto -marcato, ma pur sempre unico- o una sorta di "linea guida" degli avvenimenti al lettore, perché proceda poi con la sua soggettiva immaginazione e le sue personali sensazioni. Certo questa novella lascia un nervosismo di fondo, complici la descrizione tendenzialmente essenziale e "dritta", e una sorta di "distacco emotivo voluto", quasi a non voler in alcun modo influenzare né la storia stessa, i fatti, né il modo in cui li recepirà il lettore. Niente divagazioni, come invece può fare un tanto caro Thomas Mann; niente minuziosi, quasi pennellati ritratti di persone o cose alla Proust: tutto procede come una sorta di inquieta cavalcata, o una ratta camminata simile a quella di qualcuno che cammini nel freddo senza il cappotto, alla volta del primo luogo caldo vicino.

Il nervosismo, per quanto mi riguarda, è alimentato anche dai continui andirivieni di tensione/distensione: questo soggetto avvinazzato di nome Andreas (a quanto pare i pessimi soggetti portano tutti questo nome, compreso il sottoscritto!), il quale si gonfia di nobile e spirituale entusiasmo che finisce sempre per sciogliersi di fronte al dio soldo, incontrato "fortuitamente" più volte sulla strada; il ripetersi dell'illusione di ritenersi un uomo d'onore, per poi perdersi al primo alone di un vecchio amore, o ad un'ombra più buona di vino, un letto a baldacchino più chic in un hotel; il lato recidivo della sua persona, recidivo nel ricascare nello stesso errore tanto quanto nel autoconvincersi di non essere qualcosa che, di fatto, è, ovvero un uomo a tratti opportunista -anche a causa della povertà, dalla fame e dalla trascuratezza che si trascina dietro da tempo (in questo ricorda un po' le Confessioni di un oppiomane di De Quincey, che ho recensito a loro volta con questo articolo)- in grado di barattare la dignità e la presunta nobiltà d'animo con un bicchiere di vino in più.

La novella si chiude in pochissime righe, e questo non distende né appaga il lettore: anzi(tutto), ci si sente come di aver tenuto testa a tutti i finti picchi di tensione letteraria per poi avere una conclusione eccessivamente sbrigativa (e forse anche poco "emozionante"), e diversi punti interrogativi su alcuni personaggi citati; in secondo luogo, ci si sente quasi presi in giro, perché si giunge a un finale forse un po' scontato, e per di più "bruciato" dall'asciuttezza di linguaggio, come se si ascoltasse una persona raccontarci una storia per un'ora per poi vederla scappare via di colpo per un contrattempo, narrandoci la fine in tre parole, mentre si allontana.

Ad ogni buon conto, non mi pento né dell'acquisto né della lettura. Ha comunque qualcosa di singolare, sia nel modo in cui è scritto, sia nelle sensazioni di fastidio o simili che suscita. Ed il fatto di istigare precise e intense emozioni, anche se non quelle solitamente sperate o attese da un lettore, lo rende un piccolo libro con il quale Roth può aver centrato un suo ipotetico obiettivo di disilludere, di infastidire e lasciare insoddisfazione, senza per questo scollare dalle pagine gli occhi di chi lo avrebbe letto.

Andrew

venerdì 17 novembre 2017

La mia silloge "Mùrmure" ora è disponibile anche su ilmiolibro.it!

Finalmente sono riuscito a ri-editare la mia raccolta di poesie del 2010, "Mùrmure", anche dal sito ilmiolibro.it!

Sono passati ormai 7 anni abbondanti da quando creai questa silloge (in un tempo brevissimo, nonostante quasi tutte le poesie siano state scritte in un arco di 10 mesi), e per quanto non mi riconosca più in un certo modo di scrivere o di descrivere, ho sempre creduto sia un'opera che abbia avuto la sua importanza, il suo ruolo "vitale" per me: segna una tappa, una svolta da un periodo per me nient'affatto sereno, durato tre anni buoni, la mia uscita e una sorta di mio ritorno alla vita dopo un lungo stato di apparente "apatia" (se vogliamo, anche una depressione mai presa veramente per tale).
E' una raccolta di poesie piuttosto dirette e molto immaginative, ricca di metafore e visioni. Ma è anche una sorta di percorso personale che, con il senno attuale, sembra quasi una fase di contrappasso o di purgatorio per liberarmi da certi pesi e certi tormenti dell'animo.

Non voglio dilungarmi troppo perché amo più parlare di concerti, arte e di altro che di me. Ma per chi volesse, ora è più facile -nonché veloce e meno dispendioso in spese di spedizione!- regalarsi questa mia raccolta.

Per chi volesse, è possibile acquistarla QUI

la nuova copertina
Spero possiate interessarvi in molti! Sono comunque a disposizione per chi volesse farmi domande o altro prima di un eventuale acquisto.

A presto!
Andrew

martedì 14 novembre 2017

Concerto del "Sestetto Stradivari" (Rassegna "Merate Musica" 2017/2018)

Su di uno sgabello di pianoforte, settimana scorsa trovai un opuscolo pubblicitario della stagione Merate Musica. Devo dire che è capitato proprio, come si suole dire, a fagiuolo, perché, fino a prima di questo piccolo lieto evento, stavo gettando la spugna per quanto riguarda il trovarmi un'occasione di ascoltare concerti nelle vicinanze. Nella serata di Sabato 11 Novembre era previsto un concerto con un programma per me davvero "da gola": i due Sestteti per archi Op.18 e Op.36 di Brahms, interpretati dal Sestetto Stradivari.

Tenendo conto che, a mio parere, Brahms ha toccato alcune delle più alte vette della sua intera produzione -nonché della musica cameristica nella storia della musica- proprio con le composizioni da camera, sono corso all'occasione senza esitare. L'Auditorium di Merate, peraltro, è una bellissima struttura inserita all'interno del municipio: non enorme ma molto ben costruita, essenziale ma accorta ed assai accogliente, con tantissime componenti lignee, le sedie verde mela, un bel palchetto, un piano superiore con una "ringhiera" in vetro (ed è lì che mi sono piazzato!) ed una acustica adatta allo scopo.


Le esecuzioni del Sestetto Stradivari si sono distinte per una tenuta praticamente perfetta delle rotondità dei suoni e delle intonazioni, delle esaltazioni delle linee melodiche e delle polifonie; una gestione interessante delle agogiche (soprattutto nello Scherzo dell'Op.18) e dei dialoghi fra gli strumenti.
Il Sestetto Op.18 in Si bemolle maggiore -composto nel 1860 da un 27enne Brahms- si è aperto con un Allegro ma non troppo senza sentimentalismi né particolari libertà di oscillazioni agogiche (come è solito fare, ad esempio, prima della ripresa, in cui si tende a cedere un po' per far risaltare il da capo del ritornello), ma con un suono sempre caldo e morbido, appassionato. Il famoso Andante, ma moderato, anch'esso dal piglio profondo e pieno in tutte le sue variazioni, è stato eseguito benissimo (certe agilità della coppia di violoncelli, uniti al suono sempre ben declamato, sono da ricordare) con un'espressione consistente ma non "svenata". 
I due movimenti che più mi hanno colpito sono stati lo Scherzo ("Allegro molto", con un trio nella sezione centrale "Animato") e il Rondò conclusivo ("Poco allegretto e grazioso"): il primo dei due caratterizzato da una pronuncia e uno spiccato senso della danza, tanto da ricordarmi certi splendidi scherzi delle Sinfonie 6 e 7 di Beethoven, pieni di quel brio vivace che sa proprio di "ritrovo popolare"; il secondo, contrariamente alle normali aspettative, vicino alle idee del primo tempo, con un piglio più rapido di quel che conoscevo, una cura per il suono ed il fraseggio veramente notevoli ed una coda -"animato, poco a poco più", come da partitura- davvero cangiante e travolgente.

Una pausa di qualche minuto ha separato dal secondo Sestetto, Op.36, in Sol maggiore. Composto tra il 1864 ed il 1865, è spesso chiamato anche "Agathe Sextet" per la presenza di una serie di note nel primo movimento, ovvero la/sol/la/pausa/si/mi che corrispondono, nella nomenclatura tedesca, proprio alle lettere A-G-A-(T)-H-E (la T corrisponde ad una pausa di un quarto), in onore di una donna di cui il giovane Johannes si innamorò profondamente nel 1858 durante un soggiorno a Göttingen, ma che poi abbandonò -pentendosene, poi, amaramente per parecchio tempo: ad un amico, infatti, ammise di essere stato uno stupido nei suoi confronti- alle soglie di un matrimonio quasi certo.
Questo Sestetto differisce molto, per certi versi, dal primo. Sin dal primo tempo, Allegro non troppo, sembra esserci una ricerca quasi "spaziale" della musica, con piccoli enunciati che sfilano da uno strumento all'altro, sostenuti da un dolce tremolo di una delle viole. Ogni spunto tematico è continuamente oggetto di sviluppo e materiale di esposizione, tremolo compreso. Non da meno, il carattere generale dell'intera composizione sembra più vicino ai toni popolari, anche se sempre molto ricercati nelle armonie e nelle melodie.
Il secondo tempo, Scherzo-Allegro non troppo, è, appunto, popolaresco sia nei pizzicati  e nei mordenti iniziali, sia nelle melodie cantabili che negli stacchi più mossi come la sezione centrale Presto giocoso (momento del brano che a mio avviso il Sestetto Stradivari ha reso fantasticamente). Il Poco Adagio successivo si riversa su una cantabilità cromatica complessa, sinuosa ed affascinante, piena di chiariscuri, come il gioco imitativo del più animato o la sezione Adagio, molto dolce.
Il finale, Poco Allegro, che inizia con un episodio fugato per poi alternarlo continuamente ad un tema di ispirazione semplice e popolare che sgorga nel registro medio basso e ad intervalli di seste, resta a parer mio uno dei brani più belli della musica per archi. Il tempo staccato dagli esecutori, questa volta, è stato più seduto del previsto, ma l'articolazione dei temi fugati e di quelli popolari ne hanno giovato in particolarità ed interesse. Bellissima la coda in Animato, che nasce dal fugato portandolo come alla saturazione sonora, e concludendo fragorosamente e nel pieno dell'esaltazione sull'accordo di tonica.

Al terzo richiamo sul palco, il Sestetto Stradivari ci ha salutati con un'esecuzione notevole del  terzo movimento del Souvenir de Florence di Cajkovskij.
Credo di aver scritto anche troppo. Ma chiedo venia, e mi giustifico con le belle emozioni che ho provato nell'ascoltare, per la prima volta dal vivo, due fra i brani che più amo nella musica da camera.
Lascio come sempre qualche fotografia.






Alla prossima!
Andrew

lunedì 13 novembre 2017

La "Missa in illo tempore" di Monteverdi (rassegna "Vespri Musicali in San Maurizio" - Milano)

Con un ritardo di ben due settimane, finalmente riesco a mettermi al pc e scrivere gli ultimi post che ho lasciati in sospeso. Impegni vari e contrattempi -che, nella mia vita, guai a mancare!- mi hanno impedito di farlo prima, purtroppo.

Sabato 28 Ottobre scorso ho potuto ascoltare uno dei brani sacri che più amo in assoluto: la Missa in illo tempore di Claudio Monteverdi, interpretata magnificamente dal Ensemble Biscantores, diretti dal M° Luca Colombo, presso il "Coro delle Monache" della meravigliosa Chiesa di San Maurizio, a Milano.
Nell'organico erano presenti anche una stupenda viola da gamba (Luciana Elizondo) e un piccolo organo portatile (Gianluca Viglizzo).

Un collage fotografico di scorci della chiesa, compresa l'imponente corale
La Missa in illo tempore a 6 voci con continuo, è stata composta da Monteverdi negli anni mantovani e porta questo nome in quanto scritta sopra il mottetto In illo tempore del Gomberti. Assai complessa, richiede enorme e costante concentrazione da parte del coro e non meno attenzione alla parte, al fine di mantenere precisi l'insieme e la concatenazione delle ardite polifonie, delle imitazioni, e consentire una declamazione chiara del testo. In questo, i Biscantores sono stati veramente degli ottimi interpreti: l'impasto sonoro era davvero meraviglioso, le voci soliste altrettanto, la discorsività fluida ma non affatto superficiale. I momenti del Kyrie, del O qual pulchra es, del Credo in unum Deum e del Agnus Dei I/II sono stati, per me, i momenti più alti di una già riuscitissima esecuzione. Ma non voglio esprimermi troppo in questo modo, rischio di essere troppo personale (leggete: queste sono anche le parti della Missa che amo di più).

Il programma del concerto si chiudeva con le Litanie della Beata Vergine, dello stesso compositore, brano lungo e complesso, denso e ricco di chiariscuri e dissonanze -tipiche quanto efficacissime- spesso presenti nella musica di Monteverdi.
Uno scroscio di applausi ha ringraziato l'Ensemble delle emozioni regalate (a tratti veramente commoventi) e della direzione molto curata.

Sono molto felice di essere stato presente, e di aver poi seguito alcuni coristi ed amici a cena, stando in compagnia.
Ora non mi resta che trovare una esecuzione della Missa Papae Marcelli di Palestrina e posso dirmi soddisfatto (almeno credo!)!
Lascio qualche foto...






A presto!
Andrew

mercoledì 25 ottobre 2017

Concerto della Cappella Musicale e strumenti del Duomo di Bergamo (Rassegna "In Tempore Organi")

"In Hymnis et Canticis" il titolo dell'ultimo -ahimé- appuntamento di "In Tempore Organi", la breve rassegna di concerti organizzata con il patrocinio del Comune di Almenno San Salvatore e l'associazione Antegnati dello stesso comune.
Quest'ultima serata era prevista presso la Chiesa di San Salvatore del omonimo paese, e affidata alla Cappella Musicale e Strumentale del Duomo di Bergamo, gruppo che avevo già avuto modo di ascoltare la scorsa primavera proprio nel loro "luogo d'origine". Essa è composta da un gruppo corale (classico SATB), un basso solista, ed una piccola orchestra barocca composta da due violini, un violoncello, un contrabbasso, un trio di tromboni e l'organo. La direzione è al braccio del Maestro Mario Valsecchi.

Il programma, incentrato sul periodo barocco con alternanze di brani strumentali ad altri dalle predominanze corali o vocali, prevedeva composizioni di autori celebri, quali Dietrich Buxtehude o Johann Pachelbel; e meno noti -ma non del tutto sconosciuti, almeno a me!- come Michael Altenburg, Johann Michael Bach (suocero del ben più conosciuto Johann Sebastian), Johann Rosenmuller e altri.

Un brano del quale mi sento di accennare in particolare è la Sonata X à 5 di Rosenmuller, per 2 violini, 3 tromboni e basso continuo, che non conoscevo (ma che, forse, avevo già ascoltato proprio da loro la volta precedente) ed ho trovata davvero apprezzabile. Nonostante il baricentro sia pienamente tonale, le successioni armoniche e le modulazioni vengono risolte senza scontatezza, ed il discorso musicale -grazie anche all'artificio imitativo, ben percepibile- non stagna mai , tenendo vivi l'interesse e l'attenzione di chi ascolta. Anche le dissonanze, risolvendo spesso ed improvvisamente su armonie morbide e "pulite", giocano un ruolo importante, rendendo il gioco strumentale più denso ed appassionato. Ottima, indubbiamente, anche l'esecuzione degli strumentisti, che hanno saputo fare luce su tutte queste caratteristiche.

Per ciò che riguarda le composizioni di carattere corale, Buxtehude, insieme ad Altenburg, è stato l'autore che più mi ha colpito. In particolare, il suo All solch dein Gut wir preisen, con l'aggiunta dei tromboni a differenza di Befiehl dem Engel dass er komm, mi è veramente piaciuto, ed ho trovato il coro e gli strumenti in ottima forma!
Anche le composizioni di Vincent Lubeck e Franz Tunder con il basso solista -interpretate da Alessandro Ravasio- sono state ottimamente eseguite. In particolare Hilf deinem Volk, Herr Jesu Christ, con i lunghi "melismi" in terzine di ottavi e in quartine di sedicesimi del solista nella parte centrale, ben "passeggiati" e chiaramente enunciati.

[Una sola nota critica mi sento di fare, e non riguarda le ottime esecuzioni: la necessità di un volantino o di un libretto con i testi declamati (soprattutto quelli in tedesco) od i movimenti delle composizioni strumentali; sarebbe stato di grande aiuto per una maggiore comprensione dei brani, e, di conseguenza, anche per una partecipazione emotiva alle esecuzioni.]

Lascio qualche scatto della serata, sperando di presenziare ancora ad altre realizzazioni!





Andrew

domenica 22 ottobre 2017

Su "Confessioni di un oppiomane" (Thomas De Quincey)

Torno a "recensire" una lettura, fresca fresca. Ho acquistato questo piccolo libro di Thomas De Quincey (il quale comprende anche altre opere più brevi, come "Suspiria de profundis" o "La diligenza inglese") sempre al mercatino dell'usato e dell'antiquariato di Imbersago, domenica scorsa, e l'ho praticamente divorato; in meno di 7 giorni, se penso che in un paio di questi non ho avuto la possibilità di leggere prima di dormire, perché era già tardi -o, semplicemente, morivo di sonno.

Sin dalle prime righe mi sono sentito inghiottito dal modo di scrivere e di esprimersi dell'autore; che, per quanto assai meno "poetico ed a modo", a me ricorda non poco -chissà perché?- quello di Proust, nella "Recherche": sentito ed appassionato, libero e sciolto come un nastro, erudito ma focoso, spontaneo e fluido. 
Spero di non azzardare troppo con questa affermazione. De Quincey non si lascia sfuggire termini più "diretti", il suo procedere è senza freni inibitori: una completa sincerità, svergognata, anche negli argomenti più torbidi o dei quali si percepisce il non andarne fiero, senza per questo scadere nella sboccatezza gratuita (da questo si sente come Thomas fosse uno studioso: era considerato un grecista sensazionale, tale da superare alcuni suoi stessi docenti). Proust, diversamente, nonostante trasmetta benissimo le sue sensazioni, è sempre un po' più riservato e "non del tutto espresso": l'immagine che ho, è quella di starsene un po' come seduti all'ombra morbida ed aromatica di un albero di limoni, osservando la vicenda svolgersi su di una spiaggia assolata ma non proprio a due passi da noi.

Non manca, nelle "Confessioni di un oppiomane", anche l'elemento "confusionario" o contraddittorio. Anzi, questo non fa che rincarare quel senso stesso di sincerità e di schiettezza voluto dall'autore sin dalle anticipazioni -ma riscontrabile anche nella post-fazione- al volume. Un oppiomane che non si nasconde, ma va quasi fiero di esserlo. Che non antepone banali perbenismi o colletti inamidati. Egli sa di navigare nel mare nero dell'oppio; sa dei suoi effetti positivi e negativi, delle visioni tanto quanto della sensazione di pace; dell'alterazione che subiscono il trascorrere del tempo, gli oggetti, i ricordi, le strade percorse. 
E di questo status "altro" De Quincey quasi si compiace; anche quando, dall'uso misurato e disciplinato dell'oppio -tanto da scegliere, per il consumo, sempre il martedì o il sabato, giorni nei quali va all'Opera ad ascoltare una cantante favorita- passa alla totale dipendenza, a quell'assunzione incontrollata, che rende complici i suoi momenti di inettitudine, i suoi sogni orientaleggianti ed inquietanti (nonché del tentato suicidio della moglie, estenuata da un uomo così ingestibile e ben oltre le righe) e i suoi risvegli in lacrime, alla vista improvvisa dei suoi figli.

L'autore sostiene di voler sfatare il mito che l'oppio sia meramente ed unicamente "distruttivo": da esperto quale è, si sente in dovere -ed in diritto- di saggiarci delle sue esperienze, e di conseguenza di chiarire quali siano effettivamente gli effetti del laudano. Desidera debellare la consuetudine medica -pur ammettendo la sua non poca ignoranza sull'argomento- per rimpiazzarla con la verità del "drogato" dipendente (e come dargli torto? In un certo senso, non si può parlar di ciò che non si conosce...) che ne è quasi del tutto uscito. Perché, contrariamente all'aspettativa che crea nel lettore prima della post-fazione, De Quincey non ne esce completamente, ma ne riduce enormemente l'abuso. Arriva a passare 90 ore senza oppio, ma gli effetti devastanti sul suo stomaco -complice, probabilmente, anche l'enorme fame patita in giovinezza, la quale, ben prima dell'oppio, gli procurava fortissimi bruciori gastrici- lo inducono a ricorrere al "rimedio malsano" che, quanto meno, sembra anestetizzarlo da questi patimenti.

La conclusione è una nota di speranza verso coloro che, come lui, sono più o meno dipendenti dall'assunzione di oppio: non testimonia che si possa uscirne, ma si sente di ipotizzarlo con una certa convinzione. Riferisce ad assuntori meno esagerati di lui, che potrebbero magari resistere agli effetti collaterali della disintossicazione. Parla ancora dei suoi sogni assurdi che, nonostante siano passati dei mesi, ancora lo assillano (seppur più debolmente, parallelamente alla quantità drasticamente inferiore di laudano ingerita).
La conclusione lascia, infine, un forte senso di aspettativa: egli stesso sostiene che questo saggio potrebbe e sarebbe potuto essere ben più esteso e dettagliato. Quando fu steso per le pubblicazioni -ovvero la seconda volta, poiché la prima fu scritta per una pubblicazione periodica, per la quale aveva uno spazio ridotto- il suo stato di salute non era tale da poterlo implementare ulteriormente, pertanto si preoccupò solamente (e nemmeno del tutto) di rivederne le bozze di stampa.

Eccoci di fronte, di fatto, ad un excursus senza vero traguardo. Conviene, allora, sederci ed assaporare (quasi fossimo noi sotto effetto dell'oppio, questa volta) il gusto piccante e mai nauseabondo dell'indeterminatezza, immaginando chissà quali altri episodi, quali altre vie di Londra di notte, quali altri amori svaniti, quali altre colline o quali altri sogni l'autore avrà conosciuto, senza mai potercene assicurare davvero.

Andrew

sabato 21 ottobre 2017

Letture dimenticate (ovvero: su "La Morte a Venezia" di Thomas Mann)

Certi libri, magari brevi, che si leggono in estate ricordano i classici "amori" adolescenziali che nascono nella stessa stagione: finiscono presto e ce ne si dimentica con la stessa rapidità.
Mea culpa!, mi dico sorridendo. Perché "La Morte a Venezia", per quanto non sia un romanzo di ampio respiro, non è affatto una lettura di poco significato. Ecco, quindi, che mi sovviene un altro dettaglio: sembra quasi che, ultimamente, mi stia facendo amico Thomas Mann. Quando stavo ricominciando a leggere "Doctor Faustus" nemmeno ci avevo fatto caso. Me ne sono accorto soltanto la scorsa domenica, al mercatino di Imbersago, quando, fra i libri usati che ho scelto di comprare ce ne erano ben due altri dello stesso scrittore, dedicati prevalentemente ai racconti.

Tornando alla Morte a Venezia, a suo tempo lo scelsi perché ne avevo sentito parlare (o almeno non mi era nuovo il titolo), e perché, sostanzialmente, sono almeno due anni che vorrei concedermi una vacanza per visitare la città lagunare -che non ho mai vista, ahimé- ma non mi è ancora stato possibile.
La trama del racconto/romanzo breve narra gli ultimi momenti della vita dell'artista Gustav von Aschenbach, "appesi" totalmente -e drammaticamente- alla figura di Tadzio, un ragazzino polacco dai tratti efebi e soffusi. Aschenbach, recatosi a Venezia nella speranza di trovare un luogo salubre nel quale riposarsi dai suoi sforzi creativi -una creatività rigorosa, disciplinata quasi al limite, che non si concede deroghe- si imbatte in una città sempre più assalita dal virus del colera, che nemmeno a lui lascerà scampo. Egli, dopo un sogno caratterizzato da esperienze orgiastiche e dionisiache, si riconosce sempre più sedotto dalla bellezza di Tadzio e prigioniero del desiderio sessuale di lui. Ecco, quindi, che si imbatte prima in scambi di sguardi sempre più insistenti, e poi in inseguimenti e pedinamenti per gli infiniti vicoli della città, in bilico tra la totale perdita del dominio di sé ed il pendere dai movimenti del ragazzo, con lo sgomento di come ciò possa accadere ad un uomo dalla tempra e dall'onore come i suoi. Alla fine, estenuato dalla malattia -della quale non sembra curarsi, incatenato com'è alla sua brama- si accascia e muore sul lido, dedicando gli ultimi sguardi al suo adorato Tadzio (il quale, a sua volta si stava dirigendo in acqua dopo un litigio con gli amici), immaginandosi in un altrove nell'intento di raggiungerlo.

Ancora una volta, troviamo nello scrivere di Mann il suo lato omosessuale sempre "represso" e dolorosamente vissuto. Inoltre, così come per la figura di Adrian in "Doctor Faustus" egli si ispirò, per il lato estetico, ai tratti di un vecchio amore non corrisposto, ed alla descrizione della musica -dichiaratamente, e con tanto di post a conclusione del romanzo- allo stile dodecafonico di Schoenberg, per von Aschenbach sembra si sia ispirato duplicemente alla figura di Gustav Mahler (del quale condivide il nome) ed al poeta August Von Platen, il quale venne a Siracusa per turismo sessuale e lì morì di colera.

Lo stile narrativo è inconfondibile, con le sue frasi articolate, con vocaboli spesso ricercati e approfondimenti nonostante la brevità. E', comunque, una sorta di novella che si lascia leggere piacevolmente, forse più passionale e istintiva anche del "Faustus", nella quale dominio di sé e impossibilità di frenare le proprie pulsioni anche più "vergognose" fuoriescono senza tanti fronzoli; Aschenbach è il prototipo della persona che si riconosce in un certo modo, ma che esperienze altre lo porteranno a cambiare idea e a sondare nuove profondità del proprio io.
Il ritmo è avvincente, meno frastagliato o "affaticato" del solito Mann, il quale si concede meno spazio a dispersioni e specificazioni, meno possibilità di perdersi in sentieri secondari. Ancora una volta, ma senza per questo apparire meno interessante, la figura della perdizione del sé di un artista, che sembra estirparsi dall'epoca romantica e trapiantarsi ad un contesto storico più vicino ai nostri giorni. Come per dirci che certe inclinazioni umane non finiscono mai di indurci a fare i conti con noi stessi; o come per ricordarci che ognuno di noi si conosce alla perfezione, ma soltanto fino a che non approccia ad un mondo o ad esperienze fino ad allora mai vissute, le quali possono stravolgere se non addirittura ribaltare l'idea che di noi ci si era data ormai per "assodata".

Lettura consigliata, almeno secondo il mio modesto parere.
Curioso anche che, da quando ho ripreso il "Faustus", sia finito apparentemente (?) involontariamente (?) a cercare altri suoi libri, altri suoi racconti, altri suoi scritti.

A presto!

Andrew

giovedì 19 ottobre 2017

Sul "Doctor Faustus" (Thomas Mann)

Agli inizi dello scorso Settembre ho ripreso fra le mani un libro che avevo abbandonato quasi dieci anni fa, più precisamente nell'Aprile del 2008, a sole 150 pagine dalla fine -su quasi 600 totali, ovvero il celebre "Doctor Faustus" del noto romanziere e scrittore Thomas Mann.
Le ragioni per le quali lo avevo abbandonato per mesi sul comodino e, una volta gettata la spugna del tutto, tentennato, spolverato e quindi rimesso in libreria, erano molteplici. Ma, una su tutte, era la sua eccessiva -almeno ai miei occhi- dispersione in contestualizzazioni storiche, che non raramente erano sempre le medesime: il periodo storico della seconda guerra mondiale, con Fürer annesso, e le varie battaglie che la sua amata Germania sostenne in quegli anni bui.
Più che tenuto con la tensione alta, mi sentivo spesso allontanato dal focus, messo in stand-by. E questa non vuole essere né una critica aspra e "facile", né tanto meno una sminuita superficiale dell'autore, ma una sincera ammissione di mie sensazioni, o forse anche meglio di miei limiti ed insofferenze, probabilmente auto-inflittemi dalle aspettative che nutrivo dopo aver letto alcuni passi focali del volume.


La storia, ambientata -appunto- in una Germania nazista, mette al centro la figura di Adrian Leverkühn, migliore amico d'infanzia dell'autore, il quale si cala nei panni di un letterato a nome Serenus Zeitblom. Adrian è il tipico bambino -e poi ragazzo- dalla mente prodigiosa, al quale nulla sfugge di alcuna disciplina; il perfetto intellettuale e filosofo, filoteologo e amante dell'arte. La facilità del suo apprendimento è più volte narrata, così come la noia, velata di superbia, che lo coglie puntualmente a metà delle lezioni. E', altresì, un bambino perennemente vittima di una forte e disturbante forma di emicrania, tanto da ridurlo a letto ed al buio non di rado.
Questi elementi ne tracciano una fisionomia flebile ma algida e distaccata, o meglio inavvicinabile. Ammirato, ma non ammiratore. Amato, ma non amabile. Quasi venerato dagli amici o dai compagni di studi, ma dei quali lui, diversamente, non sembra curarsi affatto se non durante le loro disquisizioni filosofiche e teologiche. La sensibilità di Adrian è totalmente interiore ed interiorizzata, come cacciata sul fondo di una cripta invisibile a tutti, ma che fuoriesce soltanto in piccole circostanze (commoventi le pagine dedicate al bimbo chiamato "Echo", del quale egli fa da zio paziente e dispensando coccole, storielle e passeggiate).


Senza stare a descrivere tutto il libro, fondamentalmente Mann sceglie la figura di Adrian come riflesso di una Germania tronfia che, a causa di se stessa, giungerà all'autodistruzione. Infatti, il protagonista, a metà dell'opera, si troverà davanti la figura di Mefistofele, il quale lo porterà a prendere coscienza della sua fascinazione per il demonio, adombrata dalla scusa degli studi teologici e matematici; della sua noia superba, la quale cela un piedistallo radicato nella consapevolezza di apprendere più rapidamente del normale. A lui Adrian venderà l'anima in cambio del successo sicuro e del genio compositivo: perché soltanto lo studio della musica lo porterà in un luogo ove non è tutto "finito", e quindi placherà la sua sete -o meglio, la trasformerà in una continua "tensione drammaticamente assetata"- di conoscenza e di "andare a fondo", con il destino, però, segnato e già condannato.


Le pagine indubbiamente più febbricitanti ed emozionanti corrispondono ai momenti in cui il narratore trascrive in toto il dialogo fra il musicista ed il diavolo, e quello in cui il primo giunge agli ultimi momenti prima che la sua anima venga dannata.
Il dialogo fra Adrian e Mefistofele parte in modo classico, con quest'ultimo che cerca di fare "l'affare" con l'anima del protagonista; ma, successivamente, divaga e diviene una disquisizione quasi filosofica sul male, sull'inferno, su Adrian stesso: il diavolo sembra quasi uno psicanalista, nonostante i tratti volutamente tentatori e "commerciali", nel fine di attrarre a sé il talentuoso ragazzo.
Le pagine dedicate agli ultimi momenti di un Adrian "presente e vivo" sono sconcertanti, in un continuum di crescente fibrillazione. Egli, terminata la sua ultima composizione -ovvero Lamentatio Doctoris Faustis, dichiarazione del suo patto col diavolo, organizza un grande incontro con amici, colleghi e persone corollario dei suoi anni di musica e successi -insolito per un solitario distaccato come lui, ed infatti non poche persone restano sorprese. Le fa accomodare nel salone della dimora ove lui risiede (nel piccolo paesino di Pfeiffering) e ammette, poco a poco e davanti a tutti loro, della sua antica colpa. Gradualmente gli ospiti iniziano a lasciare la sala e, quando finalmente egli si dirige al pianoforte per saggiarli di qualche esecuzione della Lamentatio, dopo i primi accordi dissonanti cade a terra perdendo conoscenza. Da qui alla fine del libro si profilerà la figura di un altro Adrian, caduto nell'oblio di una malattia mentale, che non riconosce più i cari, senz'anima né spiritualità; annichilito e magro, pallido, che tenta addirittura il suicidio.


Ecco tornare il riflesso con la situazione germanica coeva: la fine della guerra, la sconfitta, la distruzione e la delusione del cuore dello scrittore, la vergogna quasi della sua nazionalità. L'anima perduta della sua amata Germania.
Le ultime righe lasciano interdetti e senza parole, come se il volume, nonostante la sua corposità (593 pagine), non sia forse ancora del tutto concluso; o piuttosto perché nemmeno nel suo cuore, Serenus/Thomas ha davvero idea di cos'altro si possa aggiungere per chiudere un caposaldo della letteratura come questo.


Andrew




mercoledì 11 ottobre 2017

Concerto del Ensemble Vocale Odhecaton (rassegna "In Tempore Organi") - 8 Ottobre 2017

Domenica scorsa sono tornato alla Chiesa di San Nicola di Almenno San Salvatore, luogo che mi piace parecchio e nel quale -per chi mi avesse letto in precedenza (vedesi articolo QUI)- avevo assistito ad un bel concerto di musica celtica. 
La rassegna In Tempore Organi, giunta alla 21ma edizione, offre appuntamenti musicali variegati che, però, diano la possibilità al bellissimo Organo Antegnati del 1588 di far sentire la sua voce.

Copertina dell'opuscolo contenente l'elenco dei concerti della rassegna coi relativi programmi

Questa volta toccava al ensemble Odhecaton, gruppo vocale maschile di voci sceltissime, compresi registri di controtenore. 

                 [Il controtenore, lo specifico per chi non lo sapesse, è quel registro vocale maschile in grado di intonare suoni sovracuti, raggiungendo essenzialmente l'estensione femminile. Anticamente, specialmente per il repertorio sacro, l'arte del canto era riservata unicamente agli uomini. Ecco perché, per raggiungere certe note, divennero popolari i cosiddetti "evirati" o "castrati" (come il noto Farinelli settecentesco), e quindi poi i controtenori.]

I cantori erano "soltanto" 5, compreso il direttore, Paolo da Col. All'organo il custode del Antegnati, il Maestro Luigi Panzeri.
Il programma, come spiegato durante l'introduzione, prevedeva l'esecuzione di brani estratti da messe su cantus firmus o su melodie popolari o in voga e riprese da più compositori (come il celebre tema de l'homme armé) quali Josquin Desprez, Compère, Pier De La Rue; quindi, passando per altrettanti noti nomi quali Andrea Gabrieli e Adriano Banchieri, alcuni brani incentrati sul tema detto Aria del Granduca (o "di Fiorenza"), per concludere con "O che nuovo miracolo" di Emilio de' Cavalieri.

Non credo di avere parole adatte per esprimere la bellezza di questo concerto, la natura delle voci, l'impasto soave e profondo delle voci degli Odhecaton. Nulla è stato lasciato al caso, nessuna voce aveva un ché di artificioso o artificiale e l'acustica della Chiesa di San Nicola non ha certo ostacolato l'ottima ed emozionante riuscita del concerto. Nella seconda parte, l'ensemble ha raggiunto il maestro organista al piano superiore, ed hanno cantato dalla terrazza dell'organo stesso. Un'emozione indescrivibile...
Tornati "sulla terra" per ricevere tutti i meritatissimi applausi, l'ensemble ha bissato il brano di Desprez, "Tu solus qui facis mirabilia / Nobis et fallatia - D'ung aultre amer", per me la cosa più bella di tutto il concerto, nel quale le voci hanno dato il meglio del loro potenziale e della loro perffetta amalgama.

Uscendo dalla chiesa, a fine concerto, non ho resistito: sul tavolino dedicato agli opuscoli e all'iscrizione alla newsletter, ho visto le loro registrazioni della Missa Papae Marcelli di Palestrina e della Missa in Illo Tempore di Monteverdi, composizioni in assoluto fra le mie preferite di due fra i compositori italiani che più amo. Non ho potuto fare a meno di portarli via con me.








In attesa dei prossimi appuntamenti, mi godo queste incisioni pazzesche!
À bientôt!

Andrew