lunedì 8 maggio 2017

Il silenzio e la polvere

Tutti vediamo come ogni cosa rotoli, seppur lentamente, verso il nulla. Ogni cosa si autodistrugge inevitabilmente, e spesso dà l'impressione di trarre piacere nel farlo.
Si squarciano nonsense, simboli difficili anche per simbolisti allenati e allucinazioni che squietano anche i migliori romantici. Tutto ciò è accompagnato da due cose: il silenzio e la polvere.
Il silenzio rotola accanto, mentre la polvere avvolge. Entrambi inerti, quasi comodi e quasi anche compiaciuti. E quando l'occhio si posa si questa scena con la consapevolezza che accade davvero, non ha voglia di combattere. Non ha voglia di (re)agire, non ha voglia di intervenire ma lascia fluire restando a guardare, passivamente. Lascia impassire questo sgretolamento perpetuo, questa levigatura paziente e continua.
Il silenzio allude ad illudere che tutto ciò sia un frammento infinito ma un frammento, e quindi finito in se stesso, verosimilmente innocuo, immobile e incasellato: una sorta di porzione di filmato che si ripete roteando su se stesso, e nella cui inquadratura non c'è nulla che testimoni un cambiamento. Forse due fili d'erba a bordo strada che si muovono sospinti dall'aria di città, o qualche pezzo di carta o un mozzicone gettato come testimoni di un'evoluzione terminata e intrecciata nel corso degli eventi così com'è, destinata a non ricevere alcuna alterazione. La polvere è il simbolo del tempo che invece passa, che trascorre e porta con sé tutto ciò che trova: una inapparente, violenta piena di fiume. La polvere si (ri)posa sulle cose senza fare rumore, senza disturbare, ma lentamente ne nasconde le vere caratteristiche, ne opacizza i colori, le rende meno interessanti, meno degne di attenzione. Paradossalmente, l'immobilità di un oggetto è trasfigurata dal depositarsi della polvere, che non ne altera lo stato o la posizione, ma attesta -attraverso il suo spessore- che il corso degli eventi non è intervenuto in quel punto in particolare, ma ha trascinato quest'ultimo con sé così come lo ha raccolto.
Le istantanee non sempre sono felici espedienti con cui avere souvenir di ciò che è stato e -forse- non sarà più; non sempre sono ritratti di un tempo felice o triste che si sente il bisogno di perpetuare -materialmente, di volta in volta, momento dopo momento- nel presente: spesso sono contrappassi, sono esangui torture, riesumazioni che stridono come gesso sulla lavagna, che lanciano fitte al fianco. Costrette e costrittive, sadiche memorie.

Tutti vediamo come ogni cosa rotoli, seppur lentamente, verso il nulla. Ogni cosa si autodistrugge inevitabilmente, e spesso dà l'impressione di trarre piacere nel farlo. 
Tutto ciò è a tempo presente, ma ogni momento che passa è già finito, morto e andato. Non c'è rete abbastanza fitta o abbastanza grande che permetta di ripescarne anche solo uno.
E, di fronte a tutto ciò, a tutto questo condursi al niente, forse, perdersi un po' -o per sempre- non è sbagliato: dà l'illusione (che, così tanto sovente, diventa necessaria e quasi vitale pur sapendola come tale) di abbandonare le braccia ed essere immobili; di adagiarsi e di aver "comprato" un po' del tempo che passa per tenerlo fermo; di non perdere la vita.
Ci si fa amici il silenzio e la polvere, una penna che scrive, un oggetto dell'infanzia o un goccio di assenzio per sopravvivere a quest'opprimente biglia rotolante verso l'ignoto, il cui sussurro discreto finisce per diventare un assordante grugnito. 
Viva la perdizione, il crogiuolo e l'oblio. Vivano essi, fonti pure di ossigeno per gli animi insofferenti.
Vivano sempre gli strumenti che consentono all'uomo di raggiungere questa pausa sul pentagramma senza fare male né a se stesso, né a nessun altro.
Perdersi non è peccato. E' aver sempre bisogno di trovarsi, che ci tiene in gabbia.

Andrew

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