giovedì 19 ottobre 2017

Sul "Doctor Faustus" (Thomas Mann)

Agli inizi dello scorso Settembre ho ripreso fra le mani un libro che avevo abbandonato quasi dieci anni fa, più precisamente nell'Aprile del 2008, a sole 150 pagine dalla fine -su quasi 600 totali, ovvero il celebre "Doctor Faustus" del noto romanziere e scrittore Thomas Mann.
Le ragioni per le quali lo avevo abbandonato per mesi sul comodino e, una volta gettata la spugna del tutto, tentennato, spolverato e quindi rimesso in libreria, erano molteplici. Ma, una su tutte, era la sua eccessiva -almeno ai miei occhi- dispersione in contestualizzazioni storiche, che non raramente erano sempre le medesime: il periodo storico della seconda guerra mondiale, con Fürer annesso, e le varie battaglie che la sua amata Germania sostenne in quegli anni bui.
Più che tenuto con la tensione alta, mi sentivo spesso allontanato dal focus, messo in stand-by. E questa non vuole essere né una critica aspra e "facile", né tanto meno una sminuita superficiale dell'autore, ma una sincera ammissione di mie sensazioni, o forse anche meglio di miei limiti ed insofferenze, probabilmente auto-inflittemi dalle aspettative che nutrivo dopo aver letto alcuni passi focali del volume.


La storia, ambientata -appunto- in una Germania nazista, mette al centro la figura di Adrian Leverkühn, migliore amico d'infanzia dell'autore, il quale si cala nei panni di un letterato a nome Serenus Zeitblom. Adrian è il tipico bambino -e poi ragazzo- dalla mente prodigiosa, al quale nulla sfugge di alcuna disciplina; il perfetto intellettuale e filosofo, filoteologo e amante dell'arte. La facilità del suo apprendimento è più volte narrata, così come la noia, velata di superbia, che lo coglie puntualmente a metà delle lezioni. E', altresì, un bambino perennemente vittima di una forte e disturbante forma di emicrania, tanto da ridurlo a letto ed al buio non di rado.
Questi elementi ne tracciano una fisionomia flebile ma algida e distaccata, o meglio inavvicinabile. Ammirato, ma non ammiratore. Amato, ma non amabile. Quasi venerato dagli amici o dai compagni di studi, ma dei quali lui, diversamente, non sembra curarsi affatto se non durante le loro disquisizioni filosofiche e teologiche. La sensibilità di Adrian è totalmente interiore ed interiorizzata, come cacciata sul fondo di una cripta invisibile a tutti, ma che fuoriesce soltanto in piccole circostanze (commoventi le pagine dedicate al bimbo chiamato "Echo", del quale egli fa da zio paziente e dispensando coccole, storielle e passeggiate).


Senza stare a descrivere tutto il libro, fondamentalmente Mann sceglie la figura di Adrian come riflesso di una Germania tronfia che, a causa di se stessa, giungerà all'autodistruzione. Infatti, il protagonista, a metà dell'opera, si troverà davanti la figura di Mefistofele, il quale lo porterà a prendere coscienza della sua fascinazione per il demonio, adombrata dalla scusa degli studi teologici e matematici; della sua noia superba, la quale cela un piedistallo radicato nella consapevolezza di apprendere più rapidamente del normale. A lui Adrian venderà l'anima in cambio del successo sicuro e del genio compositivo: perché soltanto lo studio della musica lo porterà in un luogo ove non è tutto "finito", e quindi placherà la sua sete -o meglio, la trasformerà in una continua "tensione drammaticamente assetata"- di conoscenza e di "andare a fondo", con il destino, però, segnato e già condannato.


Le pagine indubbiamente più febbricitanti ed emozionanti corrispondono ai momenti in cui il narratore trascrive in toto il dialogo fra il musicista ed il diavolo, e quello in cui il primo giunge agli ultimi momenti prima che la sua anima venga dannata.
Il dialogo fra Adrian e Mefistofele parte in modo classico, con quest'ultimo che cerca di fare "l'affare" con l'anima del protagonista; ma, successivamente, divaga e diviene una disquisizione quasi filosofica sul male, sull'inferno, su Adrian stesso: il diavolo sembra quasi uno psicanalista, nonostante i tratti volutamente tentatori e "commerciali", nel fine di attrarre a sé il talentuoso ragazzo.
Le pagine dedicate agli ultimi momenti di un Adrian "presente e vivo" sono sconcertanti, in un continuum di crescente fibrillazione. Egli, terminata la sua ultima composizione -ovvero Lamentatio Doctoris Faustis, dichiarazione del suo patto col diavolo, organizza un grande incontro con amici, colleghi e persone corollario dei suoi anni di musica e successi -insolito per un solitario distaccato come lui, ed infatti non poche persone restano sorprese. Le fa accomodare nel salone della dimora ove lui risiede (nel piccolo paesino di Pfeiffering) e ammette, poco a poco e davanti a tutti loro, della sua antica colpa. Gradualmente gli ospiti iniziano a lasciare la sala e, quando finalmente egli si dirige al pianoforte per saggiarli di qualche esecuzione della Lamentatio, dopo i primi accordi dissonanti cade a terra perdendo conoscenza. Da qui alla fine del libro si profilerà la figura di un altro Adrian, caduto nell'oblio di una malattia mentale, che non riconosce più i cari, senz'anima né spiritualità; annichilito e magro, pallido, che tenta addirittura il suicidio.


Ecco tornare il riflesso con la situazione germanica coeva: la fine della guerra, la sconfitta, la distruzione e la delusione del cuore dello scrittore, la vergogna quasi della sua nazionalità. L'anima perduta della sua amata Germania.
Le ultime righe lasciano interdetti e senza parole, come se il volume, nonostante la sua corposità (593 pagine), non sia forse ancora del tutto concluso; o piuttosto perché nemmeno nel suo cuore, Serenus/Thomas ha davvero idea di cos'altro si possa aggiungere per chiudere un caposaldo della letteratura come questo.


Andrew




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