giovedì 20 dicembre 2018

L'Harmonia Cordis celebra i primi dieci anni nello stile fiammingo (Milano, 15 Dicembre 2018)

Ciao a tutti!

Torno a pubblicare qualcosa qui dopo un periodo di ferma. Mi dispiace sempre quando non riesco a tenere una certa continuità, ma non sempre è possibile.
Ad ogni modo, sabato scorso sono stato a Milano ad ascoltare un concerto vocale tutto fiammingo, repertorio che apprezzo particolarmente. Ne ho scritto un articolo per Le Salon Musical, che lo ha pubblicato velocemente, e che condivido qui per intero:


"L'Harmonia Cordis celebra i primi dieci anni nello stile fiammingo

Per festeggiare il decimo anno di attività l'ensemble vocale Harmonia Cordis ha scelto di offrire al pubblico un programma di stampo sacro che accomunasse il periodo dell'Avvento con alcuni dei massimi espositori delle sei generazioni di compositori fiamminghi.
Il concerto, avvenuto presso la splendida Chiesa di San Calimero in Milano lo scorso Sabato 15 Dicembre, orientava infatti su celebri nomi dell'epoca, alias Guillaume Dufay, Johannes Ockeghem, Josquin Desprez, Adrian Willaert e Orlando di Lasso, rievocando quei secoli – fra il XIV e il XVI – in cui il mecenatismo delle corti spronò inevitabilmente la nascita di un repertorio scritto ad hoc, nonché il mutamento del ruolo del compositore da mero ligio ai rigorosi dogmi ecclesiastici, i quali spingevano verso il contenimento del potere seduttivo della musica (potere riconosciuto quanto temuto) per prediligere una percepibilità sine qua non del testo declamato, ad autonomo creatore, virtuoso dimostratore degli artifici contrappuntistici e polifonici. E le corti correvano ad accaparrarsi i migliori compositori in circolazione, al fine di celebrare, attraverso quel repertorio musicale sontuoso e complesso, il fasto e la grandezza delle corti stesse.
Si comincia con Veni Redemptor gentium, inno ambrosiano dell'Avvento, intonato dall'abside, per passare ad un altro inno a 3, Ave maris stella del già citato Dufay, e seguire con Credite Salvatorem nostrum, intonato da una splendida voce femminile solista: l'ensemble Harmonia Cordis mette così in luce da subito le proprie qualità, distinguendosi per la pulizia delle voci, la morbidezza dell'emissione e l'equilibrio sonoro fra le parti.
Quindi si passa alla Missa D'ung aultre amer, messa a 4 di Josquin Desprez scritta sull'omonima celebre chanson di Johannes Ockeghem (il quale fu maestro dello stesso Desprez) che presenta uno stupendo Tu solus qui facis mirabilia in sostituzione del comune Benedictus. Ma il punto più alto dell'intero concerto è forse il brano successivo, O bone et dulcis Domine Jesu, sempre del medesimo autore, un mottetto a 4 con doppio cantus firmus; per l'occasione, l'ensemble si dispone diversamente, creando due “schiere battenti” ai lati (rispettivamente Altus e Bassus, ai quali sono affidati i due cantus firmus) circondando le 4 parti. In questo caso la politestualità, il tratto saliente dei mottetti, è più che evidente: mentre le 4 parti intonano il canto principale, gli Altus declamano un Pater Noster e i Bassus una versione breve dell'Ave Maria, creando un gioco fonetico dinamico e accattivante.
Il repertorio despreziano si completa con Ave Maria...Virgo serena, mottetto a 4 su testo mariano al quale il compositore antempone al testo una strofa che riferisce all'annunciazione e ne accoda un'altra nella quale chiede alla Vergine di intercedere per lui.
Chiudono il concerto due mottetti, di Adrian Willaert e Orlando di Lasso. Rispettivamente, O magnum mysterium, celebre mottetto a 4 in due parti in cui la teoria degli affetti si presenta inequivocabilmente, strizzando lontanamente l'occhio alla maniera madrigalistica; e Resonet in laudibus, mottetto a 5 voci che pone le basi su di un carol del '300. Curiosa è la presenza dell'esclamazione “eya!”, che non fa soltanto da puro pretesto contrappuntistico ma anche da vera e propria propulsione sonora.
Dopo uno scroscio di applausi e ringraziamenti, è ancora dalla pratica dei carol che si ispira il bis dell'ensemble, con l'intonazione di canti popolari natalizi in dialetti differenti, così come diverse sono le provenienze di questa formazione corale così eterogenea eppure sorprendentemente compatta."


Lascio le fotografie scattate e vi rimando alla prossima!









Andrew

martedì 27 novembre 2018

Almenno San Bartolomeo: la Ensamble Barocco di Bergamo alla Rotonda di San Tomè

Rieccomi dopo qualche giorno in tutta fretta!, per condividere con voi un altro articolo scritto per Le Salon Musical.  Si tratta della recensione di un concerto di repertorio barocco tenuto nella zona di San Tomé, ad Almenno San Salvatore. La formazione era abbastanza insolita: oboe, fagotto, clavicembalo. Curioso è che due degli interpreti sono di mia vecchia conoscenza diciamo, in quanto docenti  di un Conservatorio nel quale ho studiato.

Come sempre copio incollo il testo dell’articolo qui:

Per “Musica e territorio” – rassegna di concerti cameristici itineranti presso abbazie, chiese romaniche, torri e castelli promossa dall’Orchestra Sinfonica di Lecco – oggi pomeriggio, domenica 18 novembre, si è tenuto il concerto del Barocco Ensemble di Bergamo, formazione strumentale composta da Marco Ambrosini all’oboe, Deborah Vallino al fagotto e Fabio Piazzalunga nel ruolo di cembalista-continuista. I valenti musicisti – Ambrosini e Piazzalunga, solo per fare cenno, sono docenti in carica presso il Conservatorio “G. Donizetti” di Bergamo da diverso tempo – hanno allietato il pubblico presente con un concerto inusuale, toccando repertori variegati di compositori celebri e meno noti: da Bach a Haendel, passando da Telemann, fino Paradisi e Pasquini. Una caratteristica che vale la pena sottolineare è l’idea di proporre composizioni per organici diversi, nella fattispecie non unicamente per trio, ma anche per il solo clavicembalo o per i due strumenti a fiato separati: questi essais, assaggi appunto, di differenti modalità espressive ed associative hanno reso fruibile ed accattivante l’ascolto.
Si sono potute ascoltare tre delle ben note Inventio a due voci del grande Johann Sebastian Bach, in una trascrizione per oboe e fagotto: adattamento non certo di frequente ascolto ma che, però, si è rivelato utile a mettere in luce contenuti e fraseggi altri rispetto a quelli delle più note esecuzioni pianistiche o cembalistiche, nuances legate in modo indissolubile alla natura stessa dei due strumenti. Ecco che queste brevi pagine assumono un’espressione più colorita e cantabile, una dizione più spiccata e una scissione delle voci facilmente percepibile.
In riferimento ai brani per cembalo solista, aldilà della famosissima Toccata in La maggiore di Paradisi, è degna di nota l’esecuzione delle Partite diverse di Follia di Bernardo Pasquini. Dopo la consueta esposizione, il celebre mesto tema viene sviluppato un po’ a mo’ di Passacaglia in una serie di 14 Varianti senza soluzione di continuità: questo consente di dare risalto non poche delle qualità espressive e di questo splendido strumento oggi considerato “antiquo” e ingiustamente poco proposto come protagonista di scene concertistica. Pasquini pare voler richiamare le ben più conosciute Partite e Toccate di Girolamo Frescobaldi (in particolare le Cento partite sopra Passacagli o brani come l’Aria detta Frescobalda, contenuti nelle medesime raccolte), adottando da quest’ultimo alcune tipologie di scrittura contrappuntistica e l’atteggiamento spavaldo nei confronti delle dissonanze come elemento affettuoso ed evocativo. Notevole l’esecuzione di Piazzalunga, sia per la precisione nelle zone rapide e passeggiate che per il sapiente uso di abbellimenti ed effetti, senza mai rendere leziosa la continuità discorsiva.
Per quanto riguarda, invece, i brani per il trio al completo, interessanti sono state le esecuzioni del Kammer Trio n.24 di Haendel, per il quale – rispetto ad autori quali Bach, per cui è sovente il motore principale – l’artificio compositivo dell’imitazione si sottomette ad una predominanza melodica cantabile, quasi ariosa, rendendosi perlopiù pretesto per brevi sviluppi od episodi modulanti; e del Trio n.12 dagli “Essercizii Musicii” di Telemann, dal consueto carattere frizzante e scorrevole nei tempi rapidi ed una maggiore ricercatezza melodico-armonica in quelli più tranquilli. Interessante anche la Sonata per fagotto e basso continuo TWV 41 ES A1 del medesimo compositore, in cui le atmosfere tenere e morbide dei movimenti più tranquilli si sono contrapposte al brio del Vivace conclusivo, con la tipica scrittura fagottistica (eseguita dignitosamente dalla fagottista Vallino) in staccato.
A conclusione di questo concerto cameristico resta soltanto una piccola riflessione-constatazione su come non poche volte certi repertori – ed autori – restino ancor oggi un po’ nell’ombra o nella nebbia, nonostante l’evidente merito di essere inclusi nei programmi di sala in rassegne ed istituzioni concertistiche."




Sperando di tornare altrettanto presto....
Andrew

giovedì 22 novembre 2018

Pletnev, rivelatore audace di coerenze altre (Serate Musicali, Milano, 8 Novembre 2018)

Rieccomi qui!,

questa volta per una occasione per me assai gradita, per quanto si tratti di un'altro dei miei articoli di recensione scritto per Le Salon Musical. Questa volta si parla di un pianista che mi sta piuttosto a cuore, e sul quale non è stato così facile scrivere senza inciampare in slanci "di parte": Mikhail Pletnev.

Riporto di seguito il testo completo, che potete leggere anche sul sito a questo link:


"Mikhail Pletnev può oggi essere considerato senza indugi uno dei più grandi pianisti viventi. Eppure, non è raro riscontrare – fra il pubblico quanto fra i musicisti – una notevole disparità di opinioni a suo riguardo: da una parte c'è chi “pende dalle sue dita”, vedendo in lui una sorta di interprete “totale”, profondo e indagatore; dall'altra, chi invece trova nel suo pianismo qualcosa di forzato, di troppo ricercato o, quanto meno, di poco spontaneo.
Quello che forse si può asserire con una certa sicurezza, è che in lui non vi è nulla di meramente istrionico, niente che miri a un presunto irrinunciabile anticonformismo (bisognoso di essere riconosciuto dal pubblico). Al contrario, curato sembra il suo atteggiamento nei confronti di tutte le sfaccettature di una esecuzione-interpretazione. Il suono, primo su tutti, sembra costituire una dimensione centrale – e centralizzata – un aspetto mai dato per scontato, tanto meno trascurato. Ogni nota ha il suo significato ed è portatrice di una parte del senso complessivo del quale quel tal pezzo o l'altro sono portatori, pertanto ogni segno, ogni figura si connota come parte essenziale, come elemento di continuità e di eloquenza. Il corpo, il respiro, o spesso la stessa durata di una nota nel tempo, si piegano di fronte ad esso, si plasmano rendendosi adattabili a quell'esigenza che non ammette mai deroghe. C'è chi recepisce questo come “licenza” o come una presa di libertà a volte eccessiva. E, a primo impatto, gli si potrebbe dare ragione: di fatto, capita sovente che alcune cellule tematiche, alcune anacrusi o alcune pause possano espandersi più del dovuto, o ritrarsi-contrarsi; che alcune sonorità indicate sulla parte vengano visibilmente sostituite, o che alcuni andamenti siano sensibilmente alterati. Inequivocabilità che rendono apparentemente inconfutabili tali affermazioni.
Ma c'è anche chi vede in lui un musicista carismatico, fiero, capace di dare volti ancora non svelati alla musica, ai fraseggi in particolare. Un pianista generatore di coerenze nuove, altre e possibili, anche quando i suoi bisogni espressivi possono far scalpitare sulla sedia i più aggrappati allo spartito o “alla tradizione”. C'è chi si porta ai concerti spartiti tascabili ed annota i “pro” e i “contro” delle esecuzioni (ma anche qualche trovata di Pletnev che giudica interessante). C'è chi rilegge il programma di sala e, dando un colpetto di gomito al vicino, gli sussurra con un velo d'irritazione: “ma non è un po' lenta questa Arietta?!”. C'è chi vede un'assolutezza disarmante, pacificante e sconvolgente al contempo, una attitudine ad osare dettata da una comprensione musicale propria ed extra-testuale, che va a toccare forse gli intenti. Un incanto reale, non artificioso.
Un aspetto certo non trascurabile è la sicurezza, il governo con il quale Pletnev porta avanti le sue – pianificate o “di pancia” che possano essere – scelte. Non c'è niente in lui e di lui che dia adito a sospetti, a credere che ci sia dell'ostentazione o della fragilità d'idee. Procede imperterrito e imperturbabile, quasi come suonasse da solo, dentro se stesso, in un teatro tutto suo (non ha mancato, di fatti, di dire in un'intervista «non suono per il pubblico, non avrebbe senso: suono per me stesso») come a dirci che, in tutto il suo lungo, profondo sguardo nell'abisso, non trova altre visioni, altre risposte più credibili, più vere di quella che ci propone.


Inutile dire che Pletnev è sorretto da una tecnica formidabile, un'ottima precisione e chiarezza nell'articolazione, un intimo rapporto con i pedali – memoriabile e sorprendente l'esclusione totale di quello destro, di risonanza, nella fuga della Sonata Op.110 di Beethoven, eseguita nella prima parte del concerto, mantenendo un appoggio, un legato ed un suono davvero stupefacenti – e una capacità di stabilire “orchestrazioni” della scrittura pianistica da lasciare increduli. Tutto ciò è per lui garanzia, consentendogli di creare vere e proprie magie.
Giovedì 8 Novembre scorso, all'Auditorium del Conservatorio di Milano, il programma era di stampo sostanzialmente classico e pre-romantico. Nella prima parte, la scelta della Sonata K.282 in Mi bemolle maggiore di Mozart può fare riflettere non poco su come l'apparente semplicità di un brano possa lasciare quasi interdetti di fronte ad un'interpretazione di alto livello. Sin dai primi accordi dell'Adagio, quella stratificazione/strumentazione dei contenuti accennata prima e quella tendenza a gerarchizzare le voci – senza che nessuna di esse resti discriminata – prende il sopravvento, ed ecco che anche un arpeggio o un ribattuto prendono vita e si dotano di fascino, rivelando il loro essere necessari e indispensabili, in quel esatto modo e in quel preciso momento; la scrittura rievoca le atmosfere di certe Serenate dello stesso compositore, grazie a un suono morbido, plastico, mai percosso, nemmeno quando Pletnev si serve di attacchi al tasto più brillanti. Bellissimi anche certi passaggi del terzo tempo, Allegro, in particolare la sezione centrale di elaborazione tematica, in cui lo spirito cromatico diventa fulcro di espressione e discorsività.
Da Mozart si passa a Beethoven, con la già citata Sonata Op.110. Si entra in contatto immediatamente con l'audacia del nostro pianista: le prime battute, solitamente eseguite con una sonorità pacata, dolcemente introversa, si ribaltano e tradiscono una emozione più pervasiva e appassionata, meno cullante, in grado di accendere l'animo del compositore. Dopo la sezione in arpeggi, quel Do scandito, preso a mignolo quasi verticale, sospeso ben più a lungo del dovuto, non è tale per tentare di influire banalmente sull'attesa desiderante del pubblico (che tiene un silenzio surreale per tutto il concerto) ma per lasciare che la sonorità si plachi da sé, si riposi, e possa condurre altrove. La sezione di sviluppo, incentrata prettamente sul primo tema, si fa invece sorda e indecisa, con un mormorare della sinistra perfettamente legato e con una pedalizzazione sapiente. Il secondo movimento ha un piglio decisamente più seduto del solito, concentrandosi più sui contrasti umorali, ritmici e sonori che su un impeto generale agitato, quasi fosse la trascrizione di un brano per ensemble di fiati e alternasse soli e tutti. Bellissimo il suono liquido della chiusa in maggiore.
Picco più alto dell'esecuzione, l'Arioso dolente, che si dispiega completamente afflitto, il suono è profondo ma come sospeso, dando l'impressione volersi perdere – o meglio, confondere – fra i ribattuti dell'accompagnamento, rifuggendo l'ammissione di un cruccio tanto grande agli occhi esterni.
Dopo la consueta pausa, Pletnev torna sul palco per una seconda parte ancora tutta mozartiana e beethoveniana. Si comincia con la celebre “Parigina”, alias la Sonata K.330 in Do maggiore, pagina eseguita da moltissimi grandi pianisti (uno su tutti Vladimir Horowitz). Il primo tempo scivola sulla tastiera leggero e frizzante, con una naturalezza d'articolazione sconvolgente. Come per la Sonata precedente, ogni singola nota, anche quelle che ornano in piccoli arpeggi o in rapidi arabeschi i temi fondanti sono perfettamente chiare, senza alcuna futile sottolineatura aggiuntiva: le dita sono libellule in piena sintonia con il pianoforte, prestidigitano ogni cosa senza la minima fatica. L'Andante ha una bella sonorità, generosa e calda nelle sezioni in Fa maggiore, ma la parte di vero effetto è quella in minore: il Fa ribattuto si fa sordo e sempre più ossessivo, incupendo il tutto e regalando uno choc inatteso, un colpo di malinconia che tenta di nascondersi ma senza il successo sperato. Il Rondò finale somiglia al primo tempo per chiarezza e brio, ma è di umore più giocoso, quasi uno Scherzo, e non manca di farsi poderoso negli episodi in cui la sinistra ha un disegno di ottave spezzate.
Conclude il programma quella pietra miliare del repertorio pianistico che è l'ultima Sonata di Beethoven, ovvero l'Op.111, in Do minore. Qui Pletnev si avvicina, se si può dire, alla perfezione dell'esecuzione: il fascino delle idee, la bellezza del suono e della distribuzione delle voci, la sincronia dei passaggi a mani pari del primo movimento (bellissimi certi “sussurri” nel registro grave del pianoforte) e della conduzione del discorso musicale colpiscono in pieno. Forse meno “personalizzata” della Sonata Op.110, ciò che lascia senza fiato è la famosa Arietta: lasciando perdere le inutili obiezioni di alcuni presenti, che sottovoce la etichettano subito “troppo lenta” (qualcuno possa impietosirsi e dare ristoro al loro bisogno di difetti), una morbidezza ed un clima di profonda elevazione mista ad abbandono permeano l'Auditorium, il silenzio attorno al pianoforte si fa quasi spettrale e il livello di introspezione cui assurge Pletnev inghiotte tutti, arrivando all'ultimo accordo lasciando nel cuore dei presenti una di germoglio di inquietudine, cresciuto invisibilmente nel corso di un'apparente beatitudine.
Infiniti applausi richiamano il pianista più volte sul palco, che, dopo una piccola titubanza come di chi non ha preparato null'altro – perché null'altro serve: cosa, ancora, dopo cotanta Musica? – sterza ancora una volta e regala una bellissima interpretazione della Sonata K.9 di Scarlatti. Questa volta è lui il più aderente al testo: l'Allegro indicato sulla parte non viene affatto tradito come dai più, ma trova piena collocazione sotto le sue dita, fra i tasti del suo amato strumento, nella famigerata chiarezza dei passaggi a mani pari e dei trilli che compaiono qui e là, quasi piccole luci tremolanti.


Accompagno con qualche fotografia e vi rimando a presto!
Andrew










venerdì 16 novembre 2018

Nordio, i solisti de laVerdi e Ghiazza alle prese con Mozart

Buongiorno!

Eccomi qui di nuovo, per un articolo fresco di pubblicazione per Le Salon Musical. Questa volta i protagonisti erano i solisti de LaVerdi, capeggiati dal violista Domenico Nordio e il clarinettista Fausto Ghiazza, alle prese con due delle pagine più importanti del repertorio cameristico, quartettistico e quintettistico, del grande Mozart.

Di seguito il testo completo dell'articolo:


Domenica 11 Novembre scorso, presso la sede di Musica Arte Cultura di Milano (MAC) Domenico Nordio, violinista residente de laVerdi, si è esibito con i solisti de laVerdi in un programma completamente mozartiano. Le pagine scelte per questo terzo concerto della stagione cameristica de La Verdi erano il Quartetto per archi K.575 in Re maggiore – primo fra i cosiddetti “Prussiani” – e il celebre, nonché meraviglioso, Quintetto per clarinetto e archi K.581 in La maggiore detto “Stadler”, in onore del virtuoso strumentista contemporaneo del compositore che contribuì a svelargli le grandi possibilità di scrittura, d'estensione e d’espressione del clarinetto.

Mozart compose ben 26 quartetti per archi nella sua non certo lunga vita; opere di perfetta fattura contenenti un po’ tutti gli aspetti dello stile e dell’immaginario musicale del musicista. Scritti negli anni 1789-1790, i Prussiani, eppure, sembrano evidenziare un contenuto dichiaratamente – e volutamente – più espressivo, più lirico di altri, con una particolare attenzione al ruolo violoncellistico. Mozart desiderava infatti soddisfare i gusti e le speranze di Federico Guglielmo II Re di Prussia, violoncellista dilettante e dedicatario dei quartetti (che sono tre: K.575, K.589 e K.590), e con non poca fatica portò a termine il compito – per poi pubblicarli con Artaria per una cifra irrisoria.
E proprio con tale slancio si apre il primo movimento (Allegretto) del Quartetto K.575: un appassionato primo tema, di stampo lirico, contraddistinto da rapide e marcate appoggiature, esposto dal primo violino, che rimbalza subito dopo al violoncello, per poi frammentarsi e farsi materiale d'elaborazione – sempre di stampo piuttosto cantabile – dello sviluppo. Il clima generale appare tutto sommato generoso e sereno, ma un orecchio più attento riscontra velate inquietudini, titubanze che Mozart cela sapientemente qui e là (com’è suo solito fare) nella scrittura, nelle armonie: la malinconia diviene allora un sorriso un po’ “posato”, nella speranza – vana, a quanto pare – che nessuno se ne accorga. L’Andante è una sorta di morbida Romanza che alterna dolcezze e chiariscuri; melodicamente ha uno stampo liederistico – possibile riminescenza di Das Veilchen K.476, per voce e pianoforte, dello stesso Mozart. La sintonia in questa pagina è stata veramente notevole, e ha tenuto il pubblico molto attento e partecipe. Il Minuetto si contraddistingue per gli accenti inusuali (pronunciati accuratamente) e la predilezione per il violoncello nella zona del Trio, predilezione che terrà – nonostante la pronuncia un po’ manchevole, unica piccola nota di demerito all’intero concerto – anche per il tema del Rondò conclusivo, nel quale il refrain subisce continue minute varianti ad ogni sua comparsa.

Per lo Stadler della seconda parte il quartetto di Domenico Nordio si avvale della partecipazione del clarinettista Fausto Ghiazza, ottimo e vivace strumentista (primo clarinetto dell'Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi) che si cala in simpatiche nonché scherzosamente mimiche botte e risposte con il primo, scambiando generosamente frasi e incisi, o contrapponendosi in episodi di contrasto.
Mozart scrisse questo Quintetto a Vienna mentre componeva i Quartetti Prussiani, nel 1789, in un periodo di grave difficoltà economica e, se non si può dire di poter percepire a tratti una dichiarata tristezza o afflizione, è innegabile un’atmosfera più contemplativa, a volte quasi abbandonata, che si mischia e alterna alle melodie più frizzanti.
Nel primo movimento questa dualità sembra alternarsi nell’organico fra il quartetto e il solista, che subentra all’improvviso con episodi – quasi dei motti o delle intromissioni – più ironici e sagaci. Il discorso musicale, comunque, non cede mai, ma anzi si variega continuamente, e sembra partorire continuamente idee nuove. Il Larghetto è probabilmente una delle pagine più belle mai scritte dal compositore salisburghese, e una di quelle in cui il clarinetto svela tutte le sue possibilità più fini e penetranti, a tratti addirittura commoventi. L’esecuzione di Ghiazza è stata notevole, ogni suono rivestiva un'importanza e aveva una sua singolare emissione, senza che ciò rendesse la musica carente di spontaneità o trasporto. Le varie frasi e semifrasi trovavano piena collocazione al di sopra del sostegno degli archi, qui perfettamente bilanciati. Dopo un Minuetto dai tratti un po' più popolari, dal Trio unicamente quartettistico, il Tema e con Variazioni finale è un vero successo: ancora una volta Nordio e Ghiazza giocano e collaborano perfettamente; e su un tappeto di secondo violino, viola e violoncello snodano una variante dopo l’altra senza il minimo cedimento – bellissimi gli arpeggi in staccato del clarinetto nella Variazione IV! – mettendo in risalto ogni inflessione e ogni giuoco timbrico, portando il Quintetto a una brillante conclusione.


Lascio qualche foto e un saluto a tutti!
A presto,
Andrew







giovedì 8 novembre 2018

“Grida, rap, folia” trittici colti e popolari da Francesco Libetta

Ciao a tutti, 

torno dopo qualche giorno di silenzio per condividere l'ultimo articolo, fresco di pubblicazione, che ho scritto per Le Salon Musical. Questa volta si tratta della recensione del concerto del pianista Francesco Libetta, che ha sorpreso il pubblico di SpazioTeatro89 con un programma interessante, inusuale e dedicato al repertorio ispirato da scene popolari.

Condivido qui il testo per intero:

"Parlare di Francesco Libetta riferendo soltanto alla sua bravura, al suo virtuosismo, all'eleganza del suo atteggiamento pianistico o sul palco sarebbe mera ripetizione di aspetti già sottolineati più volte, dei quali bene o male si è già a conoscenza da tempo. Il Libetta di cui oggi vale la pena parlare è colui che svela e propone repertori inusuali o semi-sconosciuti, autori considerati minori ma che possono ancora stupire; il Libetta che sceglie programmi da concerto pochi giorni prima della performance, che trova fili rossi molto sottili, che può passare con nonchalance da protagonista assoluto a condivisore del palco con altre formazioni.


Nel concerto di Domenica 4 Novembre scorsa, presso SpazioTeatro89 a Milano, questi sono gli aspetti che più hanno lasciato il segno e hanno sorpreso il pubblico presente. “Grida, rap, folia (ovvero il viandante virtuoso, dall'Arabia al Quai d'Orsay)”: un trittico che riduce la multiforme scaletta di questo recital – anch'esso composto da alcuni trittici – e che Libetta stesso spiega nelle sue interessanti disquisizioni. La musica descrive il mondo senza discriminazioni, soffermandosi sia su immagini più nobili sia su altre più semplici, popolari, e traendo ispirazione dalle più disparate situazioni. Torna sotto gli occhi la figura del viandante, ma diverso da quello evocato da Jeffrey Swann un paio di settimane prima: il viandante, questa volta, come l'uomo che vive nel volgo, al quale si mischia e nel quale si confonde, del quale memorizza scene, canti e volti portandoli con sé, annotati nei suoi album e nei suoi diari.


Per la partenza c'è Scott Joplin, e quel genere musicale che il nostro pianista definisce simil-ironicamente “musica suonata distrattamente per gente distratta”: brani come The Entertainer o Maple leaf rag non sono nati per le sale da concerto, per avere tutti gli occhi e le orecchie addosso, ma pagine di sottofondo ad eventi e situazioni altre. E, in questo, dunque, l'esecutore non è il protagonista della scena, ma anzi, una componente forse al limite dell'ignorabile. Ciononostante l'esecuzione è elegante, disimpegnata, trasporta negli anni in cui questa musica è stata scritta. Poi si fa un balzo più avanti nel tempo, con un rap vero e proprio, il Rap del Quai d'Orsay, pagina inaspettata del pianista e compositore Andrea Padova (presente in sala, e che sale sul palco qualche secondo per salutare e ringraziare Libetta per la scelta). Qui la musica sembra volgersi alla sillabazione serrata tipica di questo genere musicale, si priva di un vero spirito melodico per concentrare sempre più intensità nell'aspetto ritmico e in quello della massa sonora, che in alcuni frangenti si fa davvero fragorosa e mordace.


Da Padova si torna a Libetta, come esecutore di propri lavori: tre pezzi estratti da Prosthesis (La coppia di anziani, Danza cubana e Duo) e una Parafrasi immaginaria sulla Saracena di Wagner. Su quest'ultima vale la pena soffermarsi. Non esiste alcuna musica scritta da Wagner, ne esiste soltanto il libretto. Libetta, rimasto colpito dallo scenario dell'opera, ovvero Lucera, località a pochi passi da Foggia (e noi sappiamo che egli è originario della Puglia), traccia una visione ipotetica di temi ed elaborazioni dai tratti sinfonici, per poi adottare una breve citazione wagneriana per conclusione.


Ed ecco un altro trittico, quello famosissimo italiano di Franz Liszt, noto come Venezia e Napoli, celeberrime composizioni nelle quali ritroviamo quel Libetta cavalcatore di tastiere e dominatore indiscusso – e indiscutibile – di repertori virtuosistici. Gli arabeschi della Gondoliera si spandono gentilmente nella sala, bellissima è la coda di questa barcarola, con quel fa diesis reso così importante, così fondamentale. L'inquieta Canzone, sorretta da perpetui tremoli, che segue è sempre di un gondoliere, ed è estratta dall'Otello rossiniano, e sfocia senza soluzione di continuità nella Tarantella conclusiva, gran pezzo da concerto che Libetta esegue da sempre con grande energia ed eleganza, chiudendo con una coda davvero poderosa.


Tornando ad autori detti minori, il concerto segue con Pixis, pianista e compositore a suo tempo piuttosto noto (tant'è che darà il suo contributo nel Héxameron dello stesso Liszt, e al quale Chopin dedicherà la sua Fantasia su arie polacche Op.13). Ancora nel popolare, ma questa volta nel Lazio, con Scena popolare di Roma, un altro trittico che rievoca pifferai e saltarelli, avvolti nella dolcezza di una Canzone alla Madonna, motivo che sembra rendere compatta la composizione.


Dall'Italia finiamo in Oriente, con due brevi momenti di pianoforte a 4 mani: allo sgabello di Libetta se ne aggiunge uno per Giulio Galimberti, ed insieme eseguono un quieto e melanconico Canto arabo di Godowsky e Laideronnette, imperatrice delle pagode, uno dei brani che compongono Ma Mère l'Oye di Ravel.


Chiude il concerto la scelta forse più azzardata, ma anche forse più aderente all'idea del programma. Si torna in Italia, per ascoltare le Grida dei venditori di Napoli di Federico Ricci: dieci brevi pezzi per voci e pianoforte nei quali si alternano pescivendoli e fruttaroli, panettieri e macellai, trasportando il pubblico in un vero quadro napoletano popolare dell'800 (molto divertente la figura del venditore di carne di maiale, interpretata da un misterioso personaggio in costumi molto evocativi...).


Grandi applausi per un musicista così eclettico e per un programma così diversificato, efficamente bizzarro: Libetta torna sul palco e in uno slancio affettuoso regala una bella esecuzione della sua parafrasi sulla canzone La cura di Franco Battiato, brano che mette in luce sia le sue doti di grande pianista, che tratti estremamente sensibili della sua immaginazione.


Sperando di tornare a scrivere qui al più presto, lascio qualche fotografia scattata e mando un saluto!
Andrew








martedì 23 ottobre 2018

Slanci e memorie dal taccuino di un poeta giramondo: Jeffrey Swann (SpazioTeatro89, 21 Ottobre 2018)

Ciao a tutti!

Ho recentemente instaurato una nuova collaborazione. Si tratta di un'altra rivista online di musica: L'Ape Musicale. Pertanto, mi ritroverò a pubblicare rispettivamente per ben due testate, quella appena citata, e quella per la quale ho già scritto diverse volte, Le Salon Musical.
Dopo alcune peripezie, ecco il primo articolo, sul bellissimo concerto che domenica scorsa, 21 Ottobre, il M° Jeffrey Swann ha dato a SpazioTeatro89. Il link al sito lo potete trovare qui.

Condivido come solito l'intero testo pubblicato:


"Slanci e memorie dal taccuino di un poeta giramondo: Jeffrey Swann
(SpazioTeatro89, 21 Ottobre 2018)

Il viandante è una figura delle più tipiche e iconiche del periodo romantico: l'inquietudine dell'artista, del musicista, si butta in grandi traversate del mondo e del proprio animo – che spesso sono la medesima cosa. Egli cerca in sé autentico e al contempo scopre terre sconosciute, si tuffa nei pozzi adombri del proprio tormento interiore e poi lancia il cuore in avanti, verso nuovi orizzonti, nuovi panorami e alla ricerca di nuove ispirazioni.
Da Schubert – ma, se vogliamo, anche già dallo stesso Beethoven, basti pensare alla Pastorale – fino al pellegrino Liszt o al nordico fiabesco dell'opera wagneriana, l'urgenza di conoscere, di assaporare il nuovo (con la vista, il tatto, con le emozioni; insomma, con tutto il proprio essere) e ritrovare da dove si viene sprona il compositore a viaggiare, a spostarsi, ad appagare il proprio spirito stancandolo, quasi snervandolo, e creando mete sia come punti di arrivo che come luoghi dai quali tornare, arricchito e cambiato.
L'eroico e fiero camminatore schubertiano è, invero, carico di inquietudine, ma il viaggiatore lisztiano è tenace e vuole meravigliarsi, quasi misticizzarsi, innalzare il sé umano e la sua scintilla divina assopita dai “peccati” di seduzione, di desiderio di conoscenza.
Jeffrey Swann non manca affatto di incarnare, nelle esecuzioni del suo concerto “Album, stampe, diari (e diavoli)”, questi tratti vitali del musicista romantico: ascolta e rielabora magicamente i suoni dell'acqua di Au bord d'une source o di Jeux d'eau à la Villa d'Este attraverso un uso piuttosto parco del pedale, esaltando così ogni microrganismo sonoro; si lamenta e si infuria nella Vallée d'Obermann, fra linee melodiche che si insinuano, ora dubbiose, ora fragili e pure, ora più dannate e temporalesche, dominando tutto con sorprendente agio; danza insieme al Faust goethiano, a Mefistofele e all'intero villaggio in un primo, magico Mephisto Waltz come raramente si è sentito eseguirne.
Ma l'errare umano, nell'accezione dello spostarsi senza sosta e senza meta, sembra portare la società romantica verso un sentimentalismo blasonato, rimaneggiato e corrotto, macchiato. L'esaltazione delle emozioni diviene manipolazione, trasfigurazione, dannazione degli animi. Ecco quindi che l'epoca moderna, con un dei suoi massimi baluardi, Claude Achille Debussy, cerca di ridimensionare il tutto cercando un sano distacco, il quale non deve negare o impedire di emozionare ed emozionarsi, ma tenta di non farsi completamente plagiare e soggiogare.
Lo stesso viandante cambia: sembra più non camminare con i propri piedi, ma affidarsi all'immaginazione. E l'arte non descrive, non ritrae, non testimonia direttamente: evoca. C'è sempre uno spazio fra il compositore e la fonte d'ispirazione. Un po' per ragioni puramente oggettive: l'Asia e la Cina, che tanto stimolano le idee dei compositori con le loro sonorità ed i loro strumenti tipici, non si trovano certo dietro l'angolo; un po', come già detto, per autodifesa, e per spirito anti-romantico. L'evocazione qui è ora enorme, ora più sottile, dalle Collines d'Anacapri alla Puerta del Vino, passando per la Scozia (Bruyères) e l'Inghilterra dei romanzi di Dickens con Hommage à S. Pickwick Esq. P.P.M.P.C., e Swann ancora una volta ci sorprende per la bellezza e la multiformità del suono pianistico, parametro al quale nemmeno sembra davvero badare, nonché per la vivacità timbrica e le scelte interpretative. Ancor di più Pagodes, il primo brano del celebre trittico Estampes, sembra nascere dalla visione eterea di pagode giavanesi che si rivelano inaspettatamente dietro un ramo scostato (bellissima la fase finale degli arpeggi, vaporosi e aerei ma assolutamente chiari). La soirée dans Grenade è stato uno dei picchi più alti dell'intero recital, con un'apertura del tema in La maggiore davvero di grande effetto e un'ottima capacità di dividere i vari mood ritmici e melodici senza che questi subissero un distacco fra loro. Infine Jardins sous la pluie, rielaborazione debussyana di un suo brano precedente (il terzo delle Images Oubliées) ispirato alle canzone popolare infantili “Dodo, l'enfant do” e “Nous n'irons plus au bois”, si è distinto per il suono scintillante delle ultime pagine e per il tono entusiastico, esaltato della conclusione.
Ma non è tutto qui: Swann in questo programma ha scelto di fare cenno anche ad un altro tipo di viandante, quello un po' più etnomusicologico. In questo caso, all'italiano Ferruccio Busoni.
Certamente Busoni non si può assimilare a baluardi dell'etnomusicologia quali ad esempio Bela Bartok, ma il suo interesse per gli indiani d'America è notevole (tanto da suggerirlo come argomento di tesi ad una sua allieva di Berlino), ed il suo ruolo in qualità di viandante è quello di andare alla ricerca di nuovi sistemi musicali, scalari, dei quali appropriarsi per scrivere propria musica – mentre Bartok approccia alla musica popolare da un punto di vista meno “artistico” e perlopiù storico-scientifico.
Swann sceglie infatti il Diario Indiano, raccolta di quattro pezzi molto differenti fra loro e molto caratterizzati nello spirito, i quali si distinguono infatti per le sonorità non convenzionali e per una tonalità ormai orientata verso un futuro lento ma netto disgregamento."









A presto!
Andrew

mercoledì 17 ottobre 2018

Alcuni volti della Russia del '900: il duo pianistico Costa – Casanova (Sala del Trono c/o Palazzo Visconti di Brignano Gera d'Adda, “Il Castello Armonico”, 14 Ottobre)


Ciao a tutti!
Eccomi qui dopo qualche tempo con un nuovo articolo scritto per Le Salon Musical. Questa volta il concerto era dalle mani di due pianisti che conosco ormai da qualche anno, Sara Costa e Fabiano Casanova, che hanno regalato un'ora abbondante di musica davvero interessante e ben eseguita.
Qui potete trovare l'articolo editato dal sito. Condivido il testo anche qui, come sempre:

"Alcuni volti della Russia del '900: il duo pianistico Costa – Casanova

Un concerto dal programma corposo e ricercato, ma soprattutto interamente composto da musica russa quello del duo pianistico di Sara Costa e Fabiano Casanova: dalla Gogol Suite di Schnittke, passando per il Concertino di Šostakovič fino alla Seconda Suite di Sergej Rachmaninov. Nella splendida Sala del Trono del palazzo visconteo di Brignano Gera d'Adda, abbracciata da un coro di raffinati affreschi, la scorsa domenica il duo ha emozionato il pubblico con un'ottima preparazione e un'intesa musicale notevole.
La poetica di Alfred Shnittke spinge – costringe, si direbbe quasi – atteggiamenti compositivi diversi a incontrarsi, a coesistere, concorrendo a creare atmosfere e sonorità nuove (si pensi, ad esempio, ai suoi Concerti Grossi, nei quali il nome, richiamando probabilmente quelli del grande Corelli, titola opere musicali dagli aspetti estremamente variegati, quasi dei collages di stili completamente differenti fra loro). Tali atmosfere e sonorità possono lasciare non poco “spaesati”, tanto per la tonalissima semplicità di certi materiali tematici quanto per l'effetto che si ottiene accostandoli a linguaggi meno consonanti. Non mancano, peraltro, nella Gogol Suite, palesi citazioni di autori antecedenti: spicca qui, su tutte, l'incipit della Quinta Sinfonia di Beethoven, con cui l'autore chiude in sospensione (non solamente armonica) l'Ouverture. A questa si succedono ben 6 altri brani dai titoli enigmatici e, se vogliamo, anche un po' bizzarri: “Il ritratto”, “Il cappotto”, “I burocrati”, “Il ballo” e “Il testamento”. Gli ultimi due, senza togliere alcunché ai precedenti – specialmente a Il ritratto, lungo brano che mette in luce tutta la dimestichezza di Schnittke con la musica da film – hanno colpito per le atmosfere cangianti e la forte identità espressiva dell'esecuzione. Il ballo, con un tempo di valse, poi à la mazùr, e poi ancora quasi di polka, trasporta l'ascoltatore fra salotti un po' enigmatici e misteriosi, danze popolari che, però, subendo quelle “sporcature” tipiche dell'autore, trasfigurano l'immaginario rendendolo più attuale, più vicino, meno sontuoso eppure tanto curioso. Bellissima la sezione in Allegro, eseguita con il giusto piglio. Ancor di più, Il testamento, con quella lenta conclusione su una melodia presa quasi in ostinato, che pare non riuscire a riposarsi, disturbata da isolati – e un po' desolati – accordi dissonanti.
Dopo Schnittke è Šostakovič a prendersi il palco, con un brano piuttosto noto alle formazioni di duo pianistico: il Concertino Op.94, in La minore. Il titolo rende piena giustizia al tipo di scrittura pianistica, chiaramente evocativa di un'immaginaria orchestra (forse da camera?). In taluni frangenti l'opera non manca di preludere il successivo meraviglioso Concerto per pianoforte n.2, per i tipici lunghi passaggi a due ottave di distanza, la propulsione motivica quasi marziale e l'energia vigorosa contrapposti a momenti più quieti e cantabili. Il senso dell'insieme è stato reso perfettamente da Sara e Fabiano, con il giusto balancing coloristico e una sincronia ritmica chiara e praticamente ineccepibile.
Infine, la bellissima – nonché celebre – Seconda Suite Op.17 di Rachmaninov. Scritta nel 1901, differisce dalla prima (l'Op.5, del 1893) per l'assenza di palesi richiami poetici, e per il fatto che i nomi dei quattro tempi in cui si articola sono molto più tradizionali e legati alle forme musicali che alle ispirazioni personali.
L'Introduzione, in tempo di marcia, mette in luce tutta la pienezza e il calore della scrittura pianistica del compositore russo, alternando passaggi omoritmici ad altri più contrappuntistici. Degno di nota è il poderoso corale in fff dell'ultima parte, eseguito con un vero senso di maestosa grandezza. Il Waltz, dal tiro spigliato e leggero, è stato uno dei momenti più alti dell'intero concerto: da ricordare, in particolare, le sezioni meno mosse, nelle quali Rachmaninov sembra intessere le stupende melodie spiegate che riverserà nel famosissimo Concerto per pianoforte Op.18: qui il duo, unendo a un bel suono disteso, sereno ma vibrante la scelta di un tempo sensibilmente più tranquillo, ha fatto trasparire tutta la ricchezza espressiva del brano. Quindi la Romance, dai toni eterei e morbidi, e dalla cantabilità più intensa e profonda, quasi “da brughiera” – l'atmosfera è infatti molto simile a quella del lied Lilacs, dallo stesso Sergej rielaborato per pianoforte solo. Il fraseggio nobile ed eloquente è stato gestito ottimamente. A chiusa, una focosa, grintosa e affilata Tarantella, tanto ardua d'esecuzione – ottima la scelta di una sonorità meno “secca” del consueto, e l'esaltazione di voci interne sovente un po' lasciate sottotono – quanto ricca di temi in insinuazione l'uno nell'altro (o l'uno sopra l'altro), tiene per l'ultima manciata di minuti il pubblico sul filo del rasoio per poi esplodere in un fortissimo conclusivo.
Tanti gli applausi regalati ai due pianisti, che, in cambio, concedono ben due bis: un caldo e sinuoso Tango di Samuel Barber, e uno stravagante By Strauss di George Gershwin."







A presto!
Andrew

domenica 30 settembre 2018

La mano infuocata di Passerini per il concerto d'anteprima delle Serate Musicali (Milano, Sala Verdi del Conservatorio, 24 Settembre)

Rieccomi qui dopo qualche giorno, per condividere un altro articolo scritto per Le Salon Musical!

Questa volta i protagonisti sono diversi, ma tutti in un solo concerto: l'Orchestra Antonio Vivaldi, il Coro del Teatro Municipale di Piacenza e i Cori di voci bianche della Civica Scuola di Musica di Sondrio e della Scuola Goitre di Colico. In programma il Boléro di Ravel e Carmina Burana di Carl Orff, sotto la bacchetta del M° Lorenzo Passerini.

Di seguito il testo completo del articolo:

"La mano infuocata di Passerini per il concerto d'anteprima delle Serate Musicali 
(Milano, Sala Verdi del Conservatorio, 24 Settembre)

Lunedì sera, 24 Settembre, presso la Sala Verdi del Conservatorio di Milano, ha avuto luogo il concerto-anteprima delle Serate Musicali di Milano, stagione di concerti che costelleranno i prossimi mesi fino a metà Giugno 2019.
Il programma dell'anteprima era molto interessante e massiccio: il famosissimo Boléro di Maurice Ravel e le altrettanto celebri cantiones profanae di Carmina Burana di Carl Orff.
Vorrei, anzitutto, sottolineare l'ottima preparazione dell'Orchestra Antonio Vivaldi e del Coro del Teatro Municipale di Piacenza; e, in particolare, dei due cori di voci bianche della Civica Scuola di Musica della provincia di Sondrio e della Scuola Goitre di Colico: è stato veramente emozionante constatare quale preparazione, quale professionalità avessero questi giovani ragazzi.
Vorrei fare, inoltre, un cenno all'energia trascinante e al gesto appassionato del direttore, il M° Lorenzo Passerini, il quale ha dato all'intero programma un'impronta raffinata ma straripante di vigore: certi fortissimo dell'intero organico riempivano la Sala e tenevano gli ascoltatori con gli occhi letteralmente sbarrati.
Il Boléro si è aperto cautamente, aprendosi lentamente come un fiore notturno. Passerini ha ben lasciato desiderare il culmine conclusivo, ed ha reso percepibile ogni ispessimento della scrittura orchestrale. Ricordiamo che quest'opera del compositore basco, scritta istigato dalla celebre ballerina russa Ida Rubinstein e da lui espressamente destinata al balletto, è nata un po' svogliatamente, appunto con l'idea di non proporla come musica fine a se stessa, credendola incapace di coinvolgere il pubblico senza i danzatori. Come si sbagliava! Tutti, oggi, possiamo renderci conto di quale eco essa abbia avuto e di quanto essa si associ quasi indissolubilmente al nome del compositore stesso.
Apparentemente quasi un mini-compendio di alta orchestrazione, Ravel sceglie un solo ed unico motivo, diviso in due parti – una dal carattere più dolce, l'altra più calda e sensuale – che, come venendo da lontano e con pochi strumenti, via via si avvicina fino a travolgere e divorare chi la ascolta. Come dicevo, in questo Passerini ha reso appieno la sensazione, giungendo alla fine con una vera e propria esplosione di colori, dimostrando il raffinatissimo gusto e genio orchestrale di Ravel.
Dopo una breve pausa, ecco cominciare la celeberrima e quasi brutale “O fortuna”, prima delle canzoni profane dei Carmina Burana di Orff. Nonostante la lunghezza di quest'opera imponente, il pubblico non cede e mantiene l'attenzione, si lascia assorbire dall'inquietudine di Fortuna Imperatrix Mundi, dalle visioni iraconde e d'osterie di In taberna e dalle dolci, a volte struggenti, immagini di Cour d'amours. Qualche piccolo cedimento del coro femminile non inficia la piena riuscita dell'esecuzione, mentre quello maschile non manca un colpo, interpretando magistralmente il sillabato serrato di In taberna quando sumus. I tre solisti declamano impeccabilmente: Anna Delfino (soprano) stupisce con i sovracuti di “Dulcissime! Ah! / Totam tibi subdo me!”, il controtenore Antonio Giovannini con un'ottima presenza scenica e la massima cura nell'articolazione verbale; Enrico Maria Marabelli ci regala una bella voce piena di baritono, una splendida “Dies, nox et omnia”, ed un breve sketch giocoso con il direttore d'orchestra.
Ecco ritornare sulla scena l'iconica “O fortuna”, che con l'esecuzione iniziale pare erigere due enormi colonne entro le quali si svolge l'intero possente racconto musicale di Orff. Il fragore orchestrale-corale raggiunge il vertice ed ecco che la musica si chiude, imperativamente.
La forte emozione che dilaga nel pubblico non lascia nemmeno un secondo di silenzio, e straripa in lunghissimi applausi che richiamano più volte sul palco il direttore d'orchestra, i tre solisti ed i maestri di coro.
Un'anteprima di stagione che è un vero trionfo."











A prestissimo!
Andrew